Medicina di genere: la salute per le donne

Dipendenza affettiva
in un’ottica
di genere
Quale eredità?!, per gentile concessione dell’autrice Enza Prunotto
Quale eredità?!, per gentile concessione dell’autrice Enza Prunotto

La dipendenza affettiva è “donna”. Di quella forma di amore ossessivo che porta a concentrarsi completamente sull’altro sacrificando ogni altra gratificazione personale, soffre dal 3 al 6% della popolazione adulta, di cui la quasi totalità (il 99%) è di sesso femminile.
Sabrina Flores, psichiatra e psicoterapeuta, svolge la sua attività professionale sia in ambito pubblico che privato. Si occupa di dipendenze dal 2009. Attualmente lavora come specialista al SerD di Beinasco (Asl Torino 3) e fa parte del comitato di redazione della rivista nazionale “Dal Fare al Dire”. E’ inoltre collaboratrice nell’insegnamento di “Psichiatria clinica e salute mentale” del corso di laurea in Infermieristica dell’Università di Torino (sede di Asti) ed è membro della Società Italiana Tossicodipendenze e dell’Associazione Nazionale Donne Medico.

La dottoressa Sabrina Flores
La dottoressa Sabrina Flores

Dottoressa, come si fa a capire fino a che punto un amore è sano?
Nei rapporti di coppia succede normalmente che, dopo la prima fase di euforia e idealizzazione che corrisponde all’innamoramento, caratterizzata dal desiderio di stare sempre con l’altro e dal pensiero costante alla relazione, si passi fisiologicamente ad un periodo in cui si introducono elementi più realistici ed oggettivi, prendendo consapevolezza delle caratteristiche del partner, compresi i suoi limiti e i suoi difetti. Parallelamente, senza venire meno al desiderio di condivisione si riacquistano la propria identità e i propri spazi.
Nel caso di dipendenza affettiva tutto ciò non avviene, la relazione non evolve verso una fase più matura in cui trova spazio anche l’individualità del singolo, ma questa tende ad essere mantenuta in una dimensione fusionale, a costo di sacrificare aspetti personali importanti. L'”altro” viene utilizzato dalla donna per avere conferme, riconoscimenti, per sentirsi amata e amabile, ben oltre la gratificazione e il benessere che tutti ricaviamo dall’essere accettati per ciò che siamo. Lo sguardo dell’altro diventa l’unico possibile, capace di restituire un’amabilità e un’identità accettabile, uno sguardo salvifico e riparatore che deve essere mantenuto quanto più a lungo possibile. E’ una forma di amore ossessivo, totalmente sbilanciato, in cui il dare e l’avere, il reciproco scambio che nutre una relazione sana, non viene considerato fondamentale, ma prevale nella donna l’idea che la totale dedizione all’altro impedirà l’abbandono. In queste relazioni vi è mancanza di intimità, intesa come capacità di esprimere autenticamente i propri bisogni, prevalgono invece vissuti di gelosia, di controllo e di rabbia e parallelamente atteggiamenti volti al sacrificio e all’annullamento personale, nella convinzione che un aumento d’impegno e di energie nella relazione scongiurerà l’allontanamento del partner. Spesso le donne arrivano ad accettare situazioni umilianti e pericolose pur di mantenere il legame di coppia e a mettere in atto atteggiamenti autodistruttivi, compreso il consumo di sostanze (droghe) e di alcol. Alcune volte le donne scelgono partner palesemente problematici e in difficoltà, “da salvare”, giustificando la dedizione con la drammaticità della situazione e percependosi “la parte sana” della coppia (co-dipendenza affettiva).

Quali sono le cause?
Alla base c’è un problema identitario e di autostima. La dipendenza affettiva affonda le sue radici nei rapporti primari che si sono creati durante l’infanzia, ossia nella relazione con le figure di accudimento più significative nei primi anni di vita della bambina, generalmente la madre e, in misura minore, il padre. Il legame che il soggetto affetto da dipendenza affettiva sperimenta con i genitori è di attaccamento insicuro: quando la bambina manifesta le proprie necessità non viene accolto e i suoi bisogni non vengono soddisfatti, o lo sono in modo incostante ed imprevedibile. Questo accade ovviamente perché sono presenti delle difficoltà nei genitori o un contesto problematico che rendono in qualche misura deficitaria la loro capacità di prendersi cura dei figli, a volte vi è una richiesta di inversione di ruoli in cui è il piccolo a dover accudire il genitore trascurando se stesso (iper-responsabilizzazione). In alcuni casi il genitore è invece intrusivo con il proprio figlio e tende a invadere i suoi spazi e prevaricare i suoi bisogni.
Il bambino impara così che i propri bisogni non sono importanti e che lui stesso non lo è e che il genitore è una figura imprevedibile, di cui deve necessariamente “indovinare” il comportamento e i desideri per cercare di ottenere, per quanto possibile, una risposta ai propri bisogni. Il bambino cresce quindi insicuro, con la convinzione di doversi far accettare dall’altro rendendosi amabile, a scapito dei propri bisogni o desideri.

La medicina di genere
e l’Associazione Italiana
Donne Medico

a cura

della DOTTORESSA ELIANA GAI

Rispetto all’elaborazione da adulti di questa carenza infantile uomini e donne tendono a reagire in modo diverso, in base ai modelli culturali. Gli uomini esternano più spesso il loro disagio con aggressività e problemi comportamentali e ponendosi delle mete esterne, impersonali, su cui costruire una propria identità (es. lavoro). Le donne invece sono più concentrate sugli aspetti intimi e relazionali, si attribuiscono maggiormente la colpa rispetto al fallimento relazionale e adottano un atteggiamento iperaccudente e accondiscendente, spostato sull’accettazione da parte dell’altro, per ottenere un senso di Sé amabile. Con il partner si comportano ripetendo lo schema infantile: si rendono interessanti prodigandosi per il loro uomo, di fronte al rifiuto incrementano le attenzioni, restando sempre vigili ed ansiose rispetto ad un eventuale abbandono.

Perché si parla in questi casi di “dipendenza”?
La dipendenza affettiva ha delle caratteristiche comuni a tutte le altre forme di dipendenza: dopo la prima fase dell’euforia, in cui si vede nell’altro la soluzione magica al proprio malessere e si sperimenta un intenso benessere emotivo, subentrano la tolleranza (ovvero la necessità di passare sempre più tempo con il partner per ottenere lo stesso effetto gratificante, proprio come succede con le sostanze) e l’astinenza (sviluppo di malessere e ricerca compulsiva dell’altro in sua assenza); le donne intensificano il rapporto fino a perdere ogni capacità contrattuale e ad asfissiare il compagno che a quel punto, esasperato, può arrivare alla rottura del legame.
La dedizione mostrata al rapporto ha naturalmente delle ripercussioni per quanto concerne l’ambito lavorativo, sociale e familiare, in cui le donne disinvestono, concentrando tutte le loro energie e il loro tempo nella coppia.
Inoltre, proprio come nelle dipendenze, le donne hanno dei periodi di lucidità in cui provano ad interrompere la relazione, ma lo scoprirsi incapaci di farlo le porta ancora di più ad una bassa autostima e ad un senso di vergogna che le isola dal contesto amicale e sociale in cui vivono (per paura anche di eventuali critiche).

Si può tracciare un identikit psicologico di queste persone?
Le donne che soffrono di questo disturbo hanno scarsa stima di se stesse, tendono a sviluppare facilmente sensi di colpa, di inadeguatezza e di impotenza. A questi vissuti distimici possono associare rabbia, rancore e possessività. Hanno l’illusione di eliminare le proprie carenze e bisogni insoddisfatti grazie all’altro e delle fantasie romantiche. Rispetto al partner hanno paura del rifiuto e dell’abbandono, nonostante lo descrivano spesso manchevole e trascurante. Hanno poi una vita sociale limitata, dedicano poco tempo ai propri interessi e leggono le preoccupazioni di famiglia e amici come un giudizio. La maggior parte non è soddisfatta del proprio lavoro e trascura tutte le altre attività. Chiedono aiuto allo specialista non per se stesse ma per capire cosa sbagliano e come fare cambiare l’altro, focalizzando il colloquio sul partner. Hanno spesso delle comorbidità come disturbi d’ansia, depressivi, di personalità, ossessivi, post traumatici da stress, dipendenza da sostanze.

C’è una cura?
Chi soffre di dipendenza affettiva deve per prima cosa prendere coscienza del proprio problema e accettare di farsi aiutare. Bisogna poi cercare di creare intorno alla paziente una rete relazionale non giudicante, persone che non diano consigli ma che sappiano ascoltare. Attraverso un percorso specialistico di psicoterapia si lavorerà per portare l’attenzione dall’altro a sé e ai propri bisogni più autentici, con l’analisi dei pregiudizi e delle idee limitanti, per riconoscere che amore non è uguale a sofferenza e che dare tutto se stesso senza ricevere non definisce un rapporto sano. Nel caso sia presente un concomitante disturbo psichiatrico si ricorrerà ad un intervento da parte di un medico psichiatra, eventualmente anche di tipo farmacologico. Può essere utile entrare a far parte di gruppi di mutuo aiuto per condividere esperienze e problematiche con le altre persone che ne soffrono, capire che non si è sbagliate e superare la solitudine.

L’1% degli uomini malati di “dipendenza affettiva” si comporta allo stesso modo?
La dipendenza nell’uomo è più nascosta, perché il senso comune li rappresenta emotivamente indipendenti e più autonomi dal punto di vista affettivo. Alla base c’è un problema simile, legato alla famiglia d’origine; la dipendenza affettiva negli uomini può nascere sia da un rapporto con madri iperprotettive che si occupano di tutto oppure con madri carenti. Nel primo caso gli uomini cresceranno con l’idea che hanno bisogno di una donna che si occupi di loro (come faceva mamma) perché incapaci di farcela da soli, nel secondo caso ricercheranno una figura femminile idealizzata, romantica, riparatrice rispetto a quello che non è stato nella propria infanzia, a cui affidarsi.
Questi uomini non riescono a prendere delle decisioni senza avere il benestare della figura femminile e spesso richiedono un accudimento continuativo che esaspera la partner. Sono soggetti che temono l’abbandono emotivo ma allo stesso tempo investono poco nella relazione di coppia, accontentandosi della presenza dell’altro come elemento rassicurante ma non occupandosi realmente della felicità delle loro compagne. A volte cercano la realizzazione in contesti esterni alla coppia. Ai segnali di abbandono possono reagire cercando di appianare le cose, promettendo di cambiare e adattandosi alle richieste oppure con atteggiamenti aggressivi e di controllo. In ogni caso arrivano più difficilmente all’osservazione clinica e, quando accade, il quadro è più drammatico rispetto a quello femminile.

 

A cura di Elisa Schiffo

 

(dicembre 2022)