Questionario per i giovani – 2023

Percorrere insieme la strada del rispetto

Il primo dato che colpisce nel prendere in mano i risultati del questionario che anche quest’anno SOS donna ha proposto alle scuole del territorio di Asti è l’altissimo numero dei questionari compilati, più di 9000!

 

Questo primissimo dato ci dà un forte segnale di come il tema preso in considerazione, gli stereotipi che ancora sono presenti quando ci si trova davanti a fatti che riguardano la violenza di genere, abbia stimolato i ragazzi a rispondere, e nello stesso tempo i loro docenti a proporlo nelle proprie classi. Due sono gli elementi caratteristici che hanno permesso di raggiungere un numero così elevato di risposte: il primo è la semplicità di compilazione on line, che richiedeva l’espressione di un proprio consenso o meno rispetto ad una frase/espressione, il secondo è che le frasi rappresentavano stereotipi molto comuni relativi alla violenza di genere, con l’intenzione di portare alla luce i processi di stereotipizzazione e legittimazione diffusi fra i giovani, andando a toccare qualcosa di profondo, di radicato, in modo da offrire un’opportunità di elaborazione e rendere meno superficiale, meno giudicante l’opinione dei giovani rispetto alla complessità del fenomeno.

 

Le frasi sono state elaborate da commenti molto comuni, alcuni ripresi nella mostra itinerante “Non crederci! Se ti tratta male e poi ti dice: non lo farò più…” allestita da SOS donna nel corso del 2023 e presentata in trenta luoghi dell’Astigiano e di Torino, strutturata proprio per creare una rottura nelle coscienze su questo tema, di cui si sente fin troppo parlare, ma che, per la gravità di ciò che racconta, si tende ad allontanare dal proprio pensiero, dalla propria vita, a negare, minimizzare. A rendere meno drammatico.

 

Infatti, nonostante il tema della violenza alle donne sia fin troppo presente nelle cronache quotidiane, spesso non supera l’attenzione di pochi giorni, per passare oltre, ad altre presunte priorità.

 

ALCUNE CONSIDERAZIONI

 

L’indagine si colloca in un continuum all’interno delle scuole di Asti e provincia, a seguito di altre due indagini condotte nei due anni scolastici precedenti: la prima, durante l’anno scolastico 2021/22, riguardava la percezione nei giovani della violenza psicologica, condotta in gemellaggio tra gli studenti delle scuole di Asti e di Crotone; la seconda, condotta durante l’anno scolastico 2022/23 riguardava la capacità di coinvolgimento e il comportamento di solidarietà che si attiva in presenza di maltrattamento e violenza nei confronti di donne o soggetti fragili/minoranze. Nell’anno 2022/23 sono stati coinvolti i ragazzi del terzo anno della scuola secondaria di primo grado e ragazzi di tutte le classi (dalla prima alla quinta) delle scuole secondarie di secondo grado.

 

Anche questa ultima indagine si è rivolta allo stesso target, compresi gli allievi delle agenzie formative, superando le prime due per numero di questionari compilati. Hanno inoltre chiesto di partecipare all’iniziativa l’Apro Formazione di Canelli (costituisce uno dei punti informativi astigiani della Rete regionale contro le discriminazioni) e la Comunità per minori La Bussola di Valfenera.

 

L’ANALISI DEI RISULTATI

 

I DATI GENERALI

 

I primi dati ci indicano il genere, l’età e la scuola frequentata. Per quel che riguarda il genere risulta che hanno risposto in numero di poco maggiore i ragazzi (50% circa) rispetto alle ragazze (poco più del 46 %) con una piccola percentuale che si è dichiarata gender (4%).

La percentuale più alta (quasi il 18%) dichiara di avere 13 anni, quindi di frequentare la scuola secondaria di primo grado. Questo ci fa riflettere sul fatto che i tredicenni non possono essere considerati “troppo piccoli” per parlare di questo argomento. Se ne sente parlare nelle notizie di cronaca per poi rimbalzare nei talk show, dove l’analisi del fatto spesso è finalizzata all’aumento dell’audience piuttosto che ad una comprensione del fenomeno e ad una adeguata acquisizione di strumenti per riconoscerlo, e nello stesso tempo per alcuni di loro fa parte dell’esperienza diretta, dove i rapporti tra generi in famiglia sono caratterizzati da comportamenti di prepotenza e prevaricazione pur rimanendo invisibili all’esterno.

 

Questo ci rende convinti che non si possa più considerare l’argomento come adatto solo da una certa età in avanti.

L’indicazione della scuola frequentata può invece dare un segnale rispetto alla sensibilità dei docenti che l’hanno proposto ai propri studenti, in favore degli istituti tecnici e professionali, e smentisce il pensare comune che definisce le scuole tecniche come poco aperti alle problematiche di attualità. In questi istituti per contro, per le caratteristiche degli studenti stessi, e per l’impegno di molti docenti che scelgono di lavorare in questo tipo di scuola, si mette in atto un importante lavoro educativo, fatto di ascolto, di sguardo sul mondo, che pur non interrompendo la formazione, ne integrano il significato, con l’obiettivo di orientare i propri studenti non solo al lavoro, ma alla vita.

 

LE RISPOSTE

 

Da una visione di insieme si evince che un’alta percentuale di ragazzi non è d’accordo con l’espressione proposta e questo ci rassicura.  Ma in ogni grafico permane una percentuale di ragazzi e ragazze che su questi stereotipi ritrova il proprio pensiero e lo dichiara. Nei risultati sono accorpate tutte le risposte, senza distinzione di genere, ma da alcune ricerche sembra non esistano particolari differenze di opinione tra ragazzi e ragazze.

 

Si ritiene quindi utile, ai fini di una lettura più adeguata, fare alcune riflessioni sui gruppi minoritari che ci dicono “la penso anch’io così” prima di passare a delle considerazioni più generali.

 

Le frasi che hanno avuto una percentuale di consensi introno al 10%, sono la prima e la terza.

Analizziamole nei dettagli.

 

Nel primo caso (espressione n° 1) il 9% dei ragazzi si dichiara d’accordo sul fatto che non bisogna preoccuparsi più di tanto del problema. Questa risposta ci comunica un pericoloso sentimento e di minimizzazione, che non va trascurato. Si tratta di un processo di evitamento che a volte si serve di temini meno impattanti sulle nostre emozioni, che rendono più accettabile qualcosa che accettabile non è. Si pensi all’uso dell’espressione “maltrattamento in famiglia” per indicare situazioni di abuso, o “violenza domestica” per definire rapporti di potere e prevaricazione all’interno della coppia, quasi per evitare di allarmare.

 

Questo falso alleggerimento del fenomeno si avvicina al concetto di “diniego” di cui parla Cohen2 secondo cui se un fenomeno è troppo doloroso si tende ad escluderlo dalla nostra percezione, lo si allontana.

 

L’espressione n° 3, che raccoglie il numero di consensi minore in assoluto (8%), fa riferimento ad un altro concetto: la legittimazione. Con questo termine si intende “il ricondurre ad un ambito di ragione o motivi accettabili, giustificare, scusare”.

 

In corrispondenza, l’espressione n° 3 raccoglie la più alta percentuale di ragazzi che non sono disponibili a legittimare la violenza. Ma perché quell’8%? Possiamo solo riconoscere che la giustificazione o meno della violenza dipende da fattori psicologici che interagiscono con quelli socioculturali (ambiente di vita, famiglia, valori sociali dominanti, contesto scolastico), e sono queste ultime che costituiscono una possibile origine di questo stereotipo.

 

Sempre nell’espressione n° 3, insieme alla prima affermazione (se lo merita) se ne aggiunge un’altra (le sta bene così). I ragazzi che hanno dichiarato di essere d’accordo su questa affermazione si chiederanno “Perché la donna non se ne va?”. Dietro a questa domanda si percepisce la disapprovazione, che colpevolizza la donna nel suo rimanere all’interno della relazione, che non considera i vissuti della vittima, il senso di vergogna, la situazione socio economica e la difficoltà a prendere decisioni quando si subiscono ripetuti attacchi alla propria autostima e alla propria identità.

 

Le successive tre espressioni (la n° 2, la n° 4, e la n° 5) hanno ricevuto maggiori consensi, (siamo intorno al 20%) e meritano anche queste qualche riflessione.

Le prime due (nell’ordine di somministrazione la n° 2 e la n° 4) richiamano il legame affettivo, di per sé rassicurante, e quindi più facile ad essere inglobato in una sfera “magica” di protezione. La famiglia e i legami affettivi sono soprattutto delle rappresentazioni sociali[1] che l’adolescente si forma sulla base degli stimoli esterni e diventano “filtri cognitivi” per interpretare la realtà. E la famiglia felice, quella che tutti riferiamo a immagini pubblicitarie che rappresentano colazioni scherzose e affettuose, madri rilassate che propongono merende fresche e nutrienti, è difficile da cancellare dai sogni più intimi. Resta parò il fatto che l’80% dei ragazzi non si trova d’accordo, segnalando di avere un atteggiamento più critico rispetto alle relazioni affettive e familiari, e di essere in grado di distinguere tra amore e senso di possesso.

Infine, con l’ultima espressione, la n° 5, i ragazzi erano invitati ad esprimersi in merito ad un ultimo stereotipo: la colpevolizzazione della vittima, in questo caso la ragazza. Capita spesso di dare a questo fenomeno una lettura che accentua la responsabilità della vittima (il vestiario, l’atteggiamento spregiudicato, la consapevole scelta di mettersi in situazioni di pericolo o imbarazzanti) dimostrando come si sia restii a trattare l’argomento in modo libero da pregiudizi e da tabù. Se questo succede nel mondo degli adulti, ancor di più succede nel mondo degli adolescenti, che nella loro quotidiana battaglia per la costruzione della propria identità spesso si trovano, per economia di pensiero, ad utilizzare stereotipi utili a dare un’interpretazione rassicurante della realtà, in particolare quando si trovano in situazioni ambigue o dolorose3.

 

QUALCHE CONSIDERAZIONE FINALE

 

Risulta importante indagare sulla percezione che i ragazzi hanno del fenomeno della violenza di genere, perché attraverso il loro pensiero e i discorsi che ne seguono, emerge infatti l’universo dei significati che guida i loro comportamenti. Arrivare ad avere una consapevolezza della correttezza o meno delle loro idee in merito permette di avvicinarsi alle rappresentazioni sottostanti. Perché sono le rappresentazioni, ossia quello che si pensa, a guidare le azioni dei soggetti.

 

Proprio nell’età dell’adolescenza, in cui è fondamentale il processo di costruzione della propria identità, si comincia ad affermare la propria autonomia critica. Non bastano più le indicazioni che provenivano dagli adulti significativi, perché è giunto il tempo di trovare una modalità propria e originale di interpretare la realtà e inserirsi in essa, in un processo dinamico che si modifica continuamente sulla base delle esperienze.

 

Dal momento che qualcosa di estraneo entra a far parte del nostro sistema cognitivo lo si confronta con una categoria già consolidata ritenuta adatta a categorizzarlo, ossia si sceglie uno dei modelli già immagazzinati nella nostra memoria e si stabilisce una relazione positiva o negativa con quel qualcosa di estraneo. L’individuo ha bisogno di includere un fatto sconosciuto o minaccioso in categorie certe e sicure, ancorando il nuovo al vecchio, adattandolo a categorie preesistenti.

 

È questa l’origine degli stereotipi, che consentono una generalizzazione che permetta di accorciare le distanze, selezionando solo una caratteristica dell’oggetto, perdendo la complessità del fenomeno.

 

È proprio nel periodo dell’adolescenza, attraverso le interazioni con i coetanei che costituiscono la base per la formazione dei gruppi giovanili, che vengono stabiliti i valori e le norme che regolano i processi sociali e di conseguenza l’elaborazione e la legittimazione di stereotipi e pregiudizi. È impossibile prescindere dal contesto in cui si formano.

 

In un mondo esterno sempre più povero di relazioni direttamente vissute, e sempre più mediate dal web, si sente urgente la necessità di affrontare la relazione tra generi in un contesto al di fuori del proprio ambiente di appartenenza, mediato da adulti in grado di ascoltare e riflettere in favore della costruzione di un pensiero che comprenda e accolga il limite, verso la formazione di persone in grado di tollerare il rifiuto, accettare la perdita e la frustrazione, accogliere la diversità.

 

Le risposte dei ragazzi e delle ragazze riflettono gli orientamenti sociali del contesto in cui vivono, sia come esperienza vissuta, sia come pensieri indotti da ciò che vedono e seguono attraverso i social. Ma soffrono di un’estrema povertà di luoghi in cui si possano rielaborare le esperienze e i pensieri, in cui si possa dare un nome a ciò che vivono. E il modo in cui si dà un nome alle cose influenza la percezione delle cose stesse, nominare la realtà correttamente è il passaggio necessario per leggerla. Non possiamo dimenticare di quanto il linguaggio strutturi il pensiero, e la conseguente interazione tra i generi.

 

La scuola ha un compito importante in questo senso, perché costituisce un elemento di continuità in un’età fragile, un periodo della vita che risulta cruciale per lo sviluppo e la trasformazione dell’identità personale e la costruzione di un pensiero morale capace di valutare ciò che è giusto o ingiusto, lecito o illecito, buono o cattivo. Ma la società stessa non può chiamarsi fuori da questo compito.

 

Proprio per questo il progetto che  SOS donna ha ideato per le scuole non si è limitato alla somministrazione di un questionario come negli anni passati. Al termine dell’indagine on line, gli studenti sono stati invitati a vedere la mostra “Non crederci! Se ti tratta male e poi ti dice: non lo farò più…”. Da maggio a dicembre l’esposizione è stata portata, nell’Astigiano, in una trentina di scuole, municipi, biblioteche civiche, centri culturali coinvolgendo gran parte del territorio e toccando luoghi particolarmente significativi nel contrasto alla violenza di genere, come l’Ospedale Cardinal Massaia e il Tribunale di Asti.

 

La lettura delle frasi stereotipate, pronunciate da uomini maltrattanti, e lo smascheramento di tali affermazioni con la presentazione di statistiche che ne dimostrano la falsità è stato per gli studenti un prezioso contributo a completamento degli interrogativi suscitati dall’indagine.

 

Ci auguriamo che il discorso non si sia chiuso con l’invio delle risposte e la visione della mostra, ma che tutto il progetto sia stato un’occasione di riflessione che trovi continuità nelle scuole come nelle case, tra adulti e ragazzi, e soprattutto tra ragazzi e ragazze, per percorrere insieme la strada non ancora del tutto spianata nel senso del rispetto e della dignità delle persone, per contribuire a crescere giovani capaci di costruire rapporti di autentica parità di genere e di valorizzazione e sostegno reciproco.

 

Elisa Lupano

pedagogista, counsellor, formatore, già giudice onorario del Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta

 

 

NOTE

 

1) Marchetti (a cura di), Volere o violare? La percezione della violenza di genere negli adolescenti: stereotipi e processi di legittimazione, Ed. Unicopli, Milano 2008

 

2) S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Roma 2002.
Gli abitanti che vivevano intorno a Mauthausen, intervistati alla fine della guerra, hanno sostenuto che sebbene vedessero il fumo dei forni e sentissero dicerie sul vero scopo del campo, non sapevano cosa realmente stesse succedendo, né avevano fatto troppe domande. In sostanza non avevano  mai cercato di informarsi su quello che era accaduto, né di mettere insieme le informazioni frammentarie di cui erano a conoscenza che li avrebbero portati a scoprire una verità impossibile da concepire.

 

3) Serge Moscovici, elabora la teoria delle rappresentazioni sociali, (1963) descrivendole come “fenomeno” in grado di interpretare gli eventi. Esse sono l’anello di congiunzione tra i sistemi cognitivi complessi presenti in ogni individuo, e i sistemi di rapporti simbolici che guidano le interazioni sociali. Nessuna mente agisce in un vuoto ambientale. Le rappresentazioni sociali non sono rigide, ma dinamiche, vengono ricostruite e ridefinite ogni volta che si impone un nuovo problema sociale. Si inseriscono come filtri cognitivi elaborati culturalmente nell’analisi degli stimoli a cui siamo sottoposti.  Appartengono al linguaggio comune e non scientifico, e i media assumono un ruolo cruciale per la loro formazione.