Risponde il dott. Pellegrino Delfino, psicologo, psicoterapeuta.
Iscritto all’Ordine Psicologi Piemonte 01/1358.
Mi rivolgo a lei, come specialista, nella speranza di riuscire a decifrare al meglio uno dei problemi sul quale la mia vita sta ponendo le fondamenta.
Penso spesso al mio futuro e mi spaventa. A volte mi sembra di percepire il carico di responsabilità e di sofferenza che dovrò affrontare per una situazione familiare che a sedici anni mi permette di visualizzare un futuro scritto fin dalla mia nascita.
Mia sorella ha 24 anni e convive con una distrofia muscolare fin da piccolissima. I miei genitori hanno aspettato nove anni prima di mettere al mondo un altro figlio poi sono arrivata io, la figlia perfetta che è riuscita ad alleviare quella che continua ad essere una grande sofferenza. Ho dovuto crescere in fretta. Ho dovuto non pesare sulla mia famiglia. Ho dovuto assumermi un carico di sofferenza che mi accompagnerà tutta la vita.
Più cresco, più metto a fuoco cosa mi riserveranno gli anni futuri. In verità mi rendo conto che non c’è soluzione, però vorrei che lei mi aiutasse per cambiare il modo pessimista che ho di vedere le cose.
Lettera firmata
In questo protratto periodo di confinamento e dunque di convivenza forzata, emozioni e sentimenti sommersi tenuti a bada inconsciamente emergono gradualmente o del tutto subitaneamente con grande ansia e stupore di quelli stessi che li provano.
Nelle relazioni sentimentali e soprattutto quelle che perdurano nel tempo, le parti ostili (che abbiamo tutti) vengono rimosse, silenziate, lasciando così il predominio all’affetto, alla comprensione. Questo accade di norma. Ripeto: di norma!
Non più in stato, per così dire, di “cattività”, cioè quando due conviventi, sia pure per circostanze emergenziali relative alla salute pubblica, sono imbullonati a vivere ventiquattro su ventiquattro in “gabbia” per lunghi periodi.
Le tante ore di distacco per lavoro, lo stare lontani per un bel po’ nel corso della giornata è salutare, poiché ciascuno vive un mondo di cose e di avvenimenti che, per quanto possa essere faticoso, ha il merito di non rimanere incistato in casa col partner, con i figli (non potendo più girarsi altrove). Se, nonostante il confinamento, continua a predominare l’affetto vuol dire che le parti rimosse (ostilità e aggressività) sono ben tenute impalpabili da qualche parte. In questi casi, può insorgere un disappunto, un broncio che prima non c’era, uno sbuffo in più, un’insofferenza episodica, un fastidio. Roba di poco conto.
Ma se la temperatura sentimentale dei due partner era già ridotta all’osso, allora col confinamento e col fiato corto, ciò che era sommerso, irrompe in tutta la sua ampiezza, con la forza di un uragano.
A quello che lei mi chiede nell’ultima frase, rispondo che è doloroso trovarsi davanti un modello genitoriale che oggi non è quello che era abituata a vivere. Si tratta ora di fare i conti con qualcosa che dava per scontato, che non aveva mai messo in dubbio.
Non credo che la sua paura possa avverarsi.
Lei è cosciente del suo dolore. E il dolore fa crescere, perché ci pone in condizioni di riflettere, e riflettere significa comprendere, e comprendere vuol dire diventare grandi, adulti.
Sono nata insicura, nella mia vita adolescenziale nulla è stato facile, mi sono sempre ritrovata ad essere la seconda scelta, la ragazza troppo buona con gli altri, tanto che questi se ne approfittavano. Sono stata usata troppo spesso.
Non mi sono mai piaciuta, ho sempre avuto gli occhi vuoti e il sorriso spento.
Sono tremendamente fragile, timida, insicura, vivo con la costante paura di essere sbagliata, di essere un peso per le persone che mi circondano.
Ho avuto la sfortuna di essere vittima di bullismo sin dalle elementari, ciò mi ha portato anche all’autodistruzione, all’autolesionismo per tre anni con successive ricadute.
Ancora oggi mi porto dietro insicurezze e la costante sensazione di essere sbagliata, di non saper mai cosa fare per paura di sbagliare. Non riesco a vedere molta bellezza in me, vedo unicamente tanta fragilità, sbalzi d’umore e la paura costante di non essere accettata, a livello caratteriale e fisico… troppo bassa, con qualche chilo in più, sbalzi d’umore, impulsività. Mi rinchiudo in camera, da sola, e inizio pianti isterici, dolore al petto come se avessi un peso, frequenti attacchi di panico e ansia per qualsiasi cosa io faccia o dica. Ho provato a scrivere su mille pagine di diario e poi bruciarle, come se questo potesse scacciare via tutti i brutti pensieri, ma non è servito, loro tornano sempre, mi sono gettata sul disegno, leggere nuovi libri… ma niente, nel momento in cui faccio qualcosa non ci penso, ma appena la termino loro tornano. Non mi lasciano mai.
Pensavo di aver iniziato ad accettarmi e ad amare me stessa. Ma niente. Per l’ennesima volta nella mia vita ho fallito.
Cosa posso fare per questa parte del mio carattere così distruttiva?
Vorrei riuscire a star bene con me stessa e con gli altri, evitare certi atteggiamenti che possono essere fraintesi se non si conosce il mio passato, sentirmi meno sbagliata e odiare meno me stessa.
Lettera firmata
Ho letto più volte la sua lettera, così carica di sofferenza e depauperamento delle sue energie vitali. Autolesionismo e odio verso se stessa, disistima e nullificazione di sé… misconoscenza totale della psicopatogenesi ossia delle ragioni profonde del suo malessere che le impedisce di esplorare le sue capacità potenziali, giacché coperte da una coltre nero pece che rende difficili le relazioni col mondo dal quale si sente non voluta, giudicata e sopraffatta.
Dopo qualche fase di recupero di sé, ecco di nuovo immersa nella delusione, in un pessimismo a oltranza, in uno stato depressogeno e di ansia puntuale come pure di un altrettale puntuale stress che logora le sue già esigue forze e che al tempo stesso costituiscono elementi causativi delle sue condotte autolesive.
Certamente si sente sola in questo universo di immane sofferenza e che per questo la paralizza cosicché non sa proprio che fare. Le consiglio, appena può, di condividere tutto questo, per un breve tratto di vita, con uno psicoterapeuta, col quale individuare taluni suoi “buchi neri” che trattengono ingorgata chissà quanta energia, dalla quale, una volta liberata, lei potrà imparare a leggere altra versione di sé che le sarà indispensabile per una nuova comunicazione con sé stessa e col mondo.
Lei sta chiedendo aiuto e questo è un sano segno che lei, per quanto dispersa nel vuoto e nell’angoscia dell’impotenza, è disposta a porgere la mano e farsi guidare per strade che hanno chiarità nuova, perché le consentono di guardare in faccia questa parte di sé a lei sconosciuta e che la spinge, a tutt’oggi, in un sacco dove seguita ad arrotolarsi su se stessa e a farsi del male.
Coraggio, gentile lettrice, questo è il momento buono. Le faccio tanti auguri e, se vuole, mi dia ancora sue notizie.
Buongiorno dottore, mi rivolgo a lei in cerca di risposte.
Fin da piccola mi sono sempre caratterizzata per il carattere piuttosto estroverso, con le mie amiche e anche con i maschietti, e così è stato, fino a un paio di anni fa, quando ho attraversato un periodo complicato in cui mi sono molto chiusa in me stessa. Ora ho recuperato molto i rapporti con le mie amiche, non sono più “assente” quando sono con gli altri, eppure non riesco a innamorarmi.
Sto bene da sola, sempre di più con la pandemia ho imparato a bastarmi, a gestire il tempo in cui coltivo la mia indipendenza, ma ho 19 anni e a volte mi piacerebbe provare le “farfalle nello stomaco”, tipiche della giovinezza, aspettare con ansia il momento di vederlo, insomma mi piacerebbe innamorarmi.
Non ho ancora trovato davvero qualcuno che faccia al caso mio? Possibile che nessuno susciti in me un’emozione significativa oppure il problema sono io, incapace di aprirmi, di togliermi “la corazza”, rendermi vulnerabile e uscire dalla mia zona di confort? A volte mi convinco addirittura di avere altre priorità, di non avere tempo da dedicare a qualcuno e di tenere troppo alla mia indipendenza, ma sarà forse solo un modo per giustificare qualche paura repressa?
La ringrazio anticipatamente per l’attenzione.
Lettera firmata
Lei desidera una mia risposta sulle farfalle nello stomaco che non sente, vorrebbe sapere la ragione per cui non avverte quello splendido trambusto e scombussolamento del cuore che batte a 120 battiti al minuto e della mente che va sulle montagne russe.
Lei si aspetta questo, ma non accade.
Lei vuole una risposta da me, mentre io gradirei ragguagli da lei circa quel periodo, come lei stessa dice, “complicato” nelle prossimità del suo diciassettesimo anno, che pare rappresentare una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo.
Insomma, io non so nulla di quel tempo prezioso di cui invece dovrei poter sapere per comprendere se e in che misura può essere accaduto un qualcosa di psicologicamente significativo che potrebbe aver sbarrato la via che conduce a una apertura totale del proprio Sé che oggi a lei è negata.
Ciò detto, colgo l’occasione per informarla su di un fatto che val la pena sapere: più lei aspetta di sentire le farfalle e più non le sentirà. L’innamoramento non si cerca, accade e basta. Tra l’altro, le dirò che l’innamoramento non ha età. Cupido può lanciare il suo dardo a qualsiasi età e in qualsiasi momento! Non è un atto di volontà, del tipo “voglio innamorarmi e dunque mi innamoro!”.
No, nel modo più assoluto. Anzi le dirò, provocatoriamente e paradossalmente, che l’innamoramento è la conseguenza di un insuccesso della volontà e dell’attesa.
La smetta di aspettarselo… è più probabile che accada!
Da quando ho memoria mi sono sempre impegnata nello studio, un po’ perché volevo dimostrare di essere capace, un po’ per i miei genitori, un po’ perché volevo essere all’altezza di mia sorella maggiore.
Tutto ciò è finito durante la prima quarantena dell’epidemia sanitaria: passavo ore e ore a non fare nulla, non mi preoccupavo di niente, cercavo di studiare ma non quanto era necessario. Sono una persona che soffre molto la monotonia, ma, nonostante ciò, non mi impegnavo minimante per rendere le mie giornate diverse durante il lockdown. E nel momento in cui potevamo uscire di nuovo dalle nostre abitazioni faticavo molto a lasciare casa mia, e ogni volta che ci tornavo tiravo un sospiro di sollievo nel chiudermi la porta alle spalle.
Da quando è ricominciata la scuola trovo molta difficoltà a studiare. Vorrei tornare a quel periodo in cui riuscivo a farlo, ma c’è qualcosa che mi blocca, che non mi lascia dare il meglio di me ed è una cosa che non posso accettare in questo momento per via della maturità e i vari test d’ingresso universitari. Sento la necessità di impegnarmi in ciò che devo fare, ma non ci riesco.
Ho paura che il mio bisogno di tornare a studiare come un tempo sia ostacolato forse dalla paura di fallire. Quasi ogni giorno mi dico che non riuscirò ad entrare alla facoltà di medicina, la mia massima aspirazione è diventare un medico, che non riuscirò a superare l’esame di maturità con il voto che vorrei, che non prenderò la patente e che non realizzerò i miei sogni. Temo che l’unico modo per poter evitare di fallire sia proprio fallire perché il fallimento ad un certo punto mi darebbe la carica per potermi dedicare agli obbiettivi con tutte le mie forze. Non so proprio cosa poter fare a riguardo e devo assolutamente trovare una soluzione, non perché devo essere la migliore o compiacere i miei genitori, ma soprattutto perché ho bisogno di dare il meglio di me per poter entrare all’università, lasciare casa mia e iniziare la mia vita.
Attendo una sua risposta e la ringrazio del suo tempo.
Lettera firmata
La quarantena, seppur necessaria, non poteva non produrre dal punto di vista psicologico forme di destabilizzazioni ovunque, sul lavoro, in famiglia, nelle scuole, nelle relazioni sentimentali e in tutti i consessi sociali, data la paura, l’inquietudine, l’insicurezza, l’aggressività tenuta a bada, gli stati depressivi e i collaterali pensieri ansiogeni circa il futuro.
Non è quindi casuale l’emersione di uno stato di monotonia e di scoramento sopraggiunto con l’inizio del confinamento.
Questo è stato, e continua ad essere, un fatto molto diffuso. Nel suo caso, lei dice che c’è qualcosa che la blocca per ripristinare quello stato in cui si vedeva attiva, impegnata e vincente.
Indi monotonia e disinvestimento…da qui la novità: una sorta di “profezia” di fallimento. Studiare e progettare il futuro è cosa lodevole, certo. Tuttavia, non basta. Lei non dice una parola sulla sua vita affettiva e/o sentimentale che sono cariche emozionali che spingono, quando va tutto bene, in ogni direzione.
Io vorrei però farla riflettere sulle ultime parole con le quali chiude la lettera: “…soprattutto ho bisogno di dare il meglio di me per poter entrare all’università, lasciare casa mia e iniziare la mia vita.”
Sta finendo il liceo, gentile lettrice, dunque la sua vita è iniziata da un bel po’.
La sua espressione che ho messo tra virgolette merita uno spazio maggiore tale da comprenderne il significato di fondo.
Le scrivo perché oggi è una di quelle giornate che non vorrei vivere.
Mi sono svegliata stamattina con la voce di mia mamma e mio papà che litigavano. Mi è salita un’angoscia che mi è restata per tutto il giorno. Ho mangiato a malapena. Sono tornata da tre settimane, ma non voglio vivere così. Mi sento male. Vorrei solo che si separassero. Mia madre ha un disturbo e mio padre la tratta male, però lei continua a stare con lui nonostante tutto. Non solo. Non riesce a mantenere un lavoro stabile. A 40 anni devi prendere la vita nelle tue mani e decidere come viverla. Quando litigano ho paura che mio padre le faccia male. A volte non esco per paura che questo succeda.
Sono andata in Erasmus per scappare da casa. Sono stati i mesi più belli della mia vita, ho vissuto serena, ho scoperto di avere delle passioni, ho conosciuto gente bellissima e ho conosciuto lui che mi ha fatto sentire al settimo cielo.
Mentre ero via, ho ricevuto chiamate e messaggi da entrambi i miei genitori ad ogni litigio, all’inizio ho cercato di essere presente per loro perché sono i miei genitori e meritano entrambi supporto. Mi risucchiano ogni energia, ma non riesco a non farmi coinvolgere, perché sento di essere egoista se non li aiuto. Sto impazzendo. Sto già pianificando di andarmene a gennaio a lavorare da qualche parte all’estero. Voglio ritrovare la mia pace.
A volte penso a quando io e mia sorella eravamo piccole. La vita in casa era spensierata. Eravamo felici e non lo sapevamo. O forse mia madre ha nascosto i soprusi che ha subito per non farcelo pesare. Era quindi una felicità fittizia? Cosa era vero e cosa non lo era? Che cos’è vero, adesso?
Lettera firmata
Gentile lettrice,
Lei si chiede cos’è che è vero. È vero innanzitutto che lei sta male.
Capire o solo intuire la psicopatogenesi del rapporto tra sua madre e suo padre è assai improbabile e, al momento, perfino disutile. Ho letto la sua lettera più volte e penso che l’inversione di ruolo che lei attua da anni sia da correggere quanto prima. Come pensa di aiutare i suoi genitori? Lei dice di sentirsi egoista se non perpetua quello che oggi è ormai uno schema fisso. I genitori stanno male, perché litigano, e aspettano che lei medi. E questo schema durerà fino a quando? Tocca a lei ridurlo o cambiarlo del tutto, sebbene questo la farà soffrire un po’. Lei potrà paradossalmente aiutare i suoi genitori quando romperà questo schema nel quale lei è irretita in modo monolitico.
Con l’Erasmus, lei ha avuto l’opportunità di conoscere un altro mondo, che ricorda un po’ Alice nel paese delle meraviglie. In questo nuovo universo, nel quale ha potuto estrinsecare i suoi vissuti potenziali, creativi e sentimentali, ha preso coscienza a piene mani che la sua vita può essere diversa.
Allora, la frase che lei dice a proposito di sua madre, quando appunto la sollecita a prendere la propria vita nelle sue mani, credo che si addica anche, e in questo momento soprattutto, a lei. Lo faccia!
Quest’estate è stata una di quelle che non dimenticherò mai, oltre a compiere gli attesissimi diciott’anni ho anche iniziato a svolgere qualche lavoretto…dalla babysitter all’istruttrice e persino la cameriera perché ho sempre avuto il desiderio di essere autonoma e di “alleggerire” il grande peso che portano i miei genitori.
L’esperienza che mi ha segnata di più è stata quella come cameriera, inizialmente in un ristorante che non ha una gran fama, frequentato da persone considerante poco educate ed istruite, dove ho subito diversi apprezzamenti non desiderati da uomini molto più grandi di me e persino dai miei colleghi che spesso mi invitavano ad avere rapporti sessuali dopo il lavoro.
La situazione non è cambiata in un ristorante raffinato, frequentato da persone che occupano ruoli importati nella società… i modi di porsi e gli apprezzamenti erano rivolti in maniera più leggera e sopportabile ma gli sguardi che ho ricevuto li sento impressi nella mia mente. Gli uomini non hanno alcun rispetto per le ragazze che danno tutte se stesse per poter adempiere nel modo migliore il lavoro che stanno svolgendo e quando capiscono di aver esagerato con le battute, ad esempio: “Hai un gran bel sedere” o “Io con te lo farei ovunque”, cercano di aggiustare la situazione dicendo che stavano scherzando, come se questo bastasse per cancellare le offese subite. Quando succedeva, non sapevo bene come comportarmi e l’unica mia reazione spontanea era sorridere in faccia a questi mostri per poi piangere a dirotto una volta sola.
Come possiamo liberarci da questo male e soprattutto cosa possiamo fare per poter cambiare questi comportamenti negli uomini?
Lettera firmata
Lei ha diciott’anni ed è apprezzabile e sana la sua determinatezza all’autonomia e alla ricerca di un lavoro adatto a lei.
Purtroppo, il maschiocentrismo e la fallocrazia con le consuetudini e stili che li contraddistinguono da migliaia d’anni sono duri a morire.
Lei e io non possiamo cambiare il mondo, la cultura nella quale viviamo. Non ne abbiamo il minimo potere.
Possiamo però reagire e difenderci dalla volgarità gratuita dei grossier. Come?
Intanto, lei riferisce: “Quando succedeva non sapevo come comportarmi e l’unica mia reazione spontanea era sorridere in faccia a questi mostri per poi piangere a dirotto una volta sola.”
Comprendo il suo malessere, sta appena affacciandosi al mondo (ahi lei, non sempre venerabile!) degli adulti e le è capitato di contattare con uomini di una goliardia cafona che offendono la sua sensibilità, oltretutto di giovanissima donna lavoratrice.
Nondimeno, se l’unica sua reazione è sorridere, le dirò subito che non va bene. Se lei sorride appetto a battute di tale fatta, come fanno Tizio Caio e Sempronio a capire che la stanno umiliando e ledendo la sua dignità?
In questi casi lo strumento da migliorare è la comunicazione non verbale che li sistema subito e può far sentire loro umiliati! Dunque, capitasse ancora, in primo luogo si tolga quel sorriso dal volto e, dopo una minima pausa, col corpo dritto e fermo, lo sguardo gessoso, diriga le sue pupille “nero-pece” nelle sclerotiche dell’altro, senza pronunciare alcunché, giacché in tal modo lei ha già risposto e trasmesso tutto. Vedrà, lo faccia le volte che occorre: rimarranno smosciati e mortificati, forse contriti.
Vorrei solo aggiungere che questa è solo gente frustrata e limitata. Non sono “mostri”. Suvvia: i mostri sono altri. Gli umani, no.
Auguri per il suo lavoro.
Salve, ho 16 anni e sono la maggiore di 8 figli; con mamma e papà siamo 10.
Quando qualcuno mi chiede quanti fratelli ho e sente la mia risposta, si meraviglia.
Alcuni rispondono: “Ammazza”, altri “Complimenti alla mamma”.
Però c’é anche chi chiede: “Ma la tv ce l’avete?”, “La tv quando la comprate?” o più recentemente:” La prossima volta, di’ a papà ‘tieni'”, si riferiva al preser…ivo.
Per loro si tratta di una semplice battuta, ma io mi sento in estremo imbarazzo e la mia reazione è ridere con loro…
Nel profondo, però, mi sento offesa. Davvero pensano che la decisione di una coppia di avere tanti figli sia legata al possedere una tv? Magari dietro c’è l’amore per i bambini, motivi religiosi o culturali, la felicità di vederli tutti insieme sorridenti.
O davvero pensano che i miei genitori non conoscano le protezioni?
Devono per forza dire quelle frasi che mi fanno provare imbarazzo e anche un po’ di vergogna?
Qual è la sua opinione a riguardo e cosa mi consiglierebbe di fare in questi casi?
Lettera firmata
Hai già dato delle risposte circa i motivi preposti alla procreazione di otto figli, dei quali tu sei la maggiore (“amore per i bambini, motivi religiosi o culturali, felicità di vederli insieme sorridenti”). Questo vuol dire che tu stessa per prima devi essertelo chiesto.
E non è cosa da poco essere la maggiore di otto figli.
Ciò detto, posso capire l’ “imbarazzo” alle battute scherzose degli amici, meno la vergogna. Come che sia, ti consiglio il seguente espediente. Alla prossima battuta allusiva, rispondi, senza più ridere, ma con un’espressione serissima: tenete in mente che i miei genitori sono ancora giovani e per questo ne potrebbero fare ancora tanti!
Serissima però, ripeto. Non solo non rideranno, ma si guarderanno bene in seguito dal riproporti le solite nenie.
Ho lasciato giovanissimo la mia terra, come tanti altri, per fuggire dalla povertà e dai nostri padri-padroni. Insulti, botte, cinghiate, anche senza motivo. Qualcuno è rimasto invalido per sempre. Eppure quello che fa più male della violenza fisica, ancora oggi, è aver dovuto rinunciare all’amore caldo, protettivo di mia madre… troppo breve il tempo trascorso assieme, non più recuperabile.
Perché le scrivo, dottor Delfino?
Anche se non sono padre, mi capita sovente di osservare come si comportano i giovani padri di oggi con i loro figli e mi pare siano passati anni luce, e non 50 anni, da quando ero io bambino. Non giudico mio padre, facevano tutti come lui, a quei tempi… famiglie numerose, qualche lavoro saltuario, soldi non ce n’erano.
Le cose sono davvero cambiate così tanto e in così breve tempo? Lei, dal suo osservatorio come psicoterapeuta, che visione ha del ruolo paterno attuale?
La saluto con cordialità.
Lettera firmata
Quello che lei scrive è vero e sacrosanto: il passaggio che si è svolto nel corso degli ultimi cinquant’anni ad oggi non poteva neppure essere immaginato per la semplice ragione che non vi erano i presupposti immaginativi per presagirlo. E questo in tutti i settori del vivere. Ovvio anche nel campo dell’educazione e dell’allevamento dei figli.
La sua esperienza personale (da bambino ad adolescente) è stata senza alcun dubbio tremenda. Vorrei, nondimeno, destare la sua attenzione su due fatti. Il primo è che a lei non è mancato, sia pur per breve tempo, l’amore e il calore di sua mamma, senza i quali il suo percorso vitale sarebbe stato assai più difficoltoso, forse devastante.
Il secondo invece riguarda quello che un sociologo chiamerebbe una sovracategorizzazione: i tempi erano quelli che erano, lavoro non ce n’era, i padri erano imbufaliti, ecc. No, non è così, mi creda. Nonostante la sua terra coi tempi bui che l’hanno caratterizzata, le brutture dell’epoca, l’ignoranza e le forti tensioni, non tutti i papà erano come il suo. I rapporti affettivi miseri non sono necessariamente il riflesso di una miseria economica familiare.
Suo padre, forse anaffettivo e violento, purtroppo non ha mai saputo ciò che si è perso: amare e allevare il suo bambino (lei) che poteva essere per lui fonte di felicità, sì da superare la miseria nella quale si sentiva sprofondare, permettendo a lei una crescita sana e colma.
È anche vero che attualmente c’è stata nel campo dell’educazione dei figli come una corsa nell’opposto (nella psicologia junghiana si chiama enantiodromia) che poi, se ho ben capito come credo, è ciò che la sconcerta: da padre-padrone ci si è trasformati più prossimi a padri apprensivi e permissivi all’estremo.
Salve dottore, le scrivo perché sto attraversando un periodo in cui non mi capisco molto.
Mi trovo in un periodo difficile, è mancata mia zia da poco, mia nonna non sta per niente bene e a tutto questo si aggiunge anche la mia ansia e la mia preoccupazione per la scuola, per la responsabilità che ho nel dover scegliere quale università frequentare il prossimo anno. Mi sento davvero spaesata e non so che fare della mia vita, non mi sento pronta a decidere ora. In realtà mi piacerebbe davvero tanto diventare un’attrice di successo, l’ho sempre sognato fin da piccola, ma purtroppo, come anche altri ragazzi della mia età, non riesco a pensare a ciò che mi piacerebbe fare. Sono troppo condizionata da pensieri come “troverò lavoro?”, “guadagnerò abbastanza per vivere bene?”.
Io penso che questa situazione sia data dal fatto che sono una persona estremamente insicura e che non ha mai avuto le idee chiare in qualsiasi scelta, in qualsiasi situazione anche con le amiche o con il mio ragazzo sono una che si fa andare bene tante cose anche se non dovrei farmele andare bene, ma lo faccio solo per paura di litigare o di perdere quella persona. Molte volte mi sottovaluto, non mi sento all’altezza di qualcuno o di alcune situazioni, spesso mi metto in discussione e questo mi porta ad essere così indecisa su qualsiasi cosa e soprattutto su cosa fare del mio futuro perché ho paura di sbagliare, ho paura del giudizio degli altri a cui io dò sempre troppa importanza anche quando non dovrei.
Nonostante io sia consapevole di questi miei “difetti” non riesco a cambiare il mio modo di pensare, per questo volevo chiederle se mi può dare un consiglio su come potrei fare a essere più sicura di me per riuscire ad affrontare meglio e con più sicurezza le cose. Grazie.
Lettera firmata
Mettersi in discussione è cosa sana. Mettersi in discussione all’infinito, non lo è.
Confrontarsi e mettere in discussione anche amiche e amici, col dovuto tatto, s’intende, perfino col rischio di perderne qualcuno, anche questa è cosa sana.
Limitarsi ad accettare l’inaccettabile e sopportare con acquiescenza passiva l’altro o l’altra, pur di non perdere la relazione, è fatica che toglie molta energia…
La sua insicurezza va approfondita: cosa le è accaduto per sentirsi oggi così? Questo, gentile lettrice, è cruciale e assai proficuo per la sua crescita.
Gentile Dottore, l’ho conosciuta anni fa e l’ho sempre stimata.
Avrei piacere di avere un suo parere. Non si tratta fortunatamente di un caso di violenza, ma non illudiamoci perché le nostre vite sono costellate anche da piccoli soprusi da parte di colleghi, famigliari, fidanzati. Piccoli soprusi che sono violenze. Premetto che, ad una certa età, una donna può arrivare ad esser stufa del mondo maschile, quasi nauseata, anche per via dell’egoismo, insensibilità e maschilismo, al punto da preferire di gran lunga starsene da sola…come nel mio caso.
Trascorrendo io per lavoro la settimana, fuori regione, quando mi vedo con la persona che sto frequentando, mi reco io a casa sua. Mi sobbarco due ore di viaggio e la spesa di benzina e autostrada che non è indifferente. La cosa non mi infastidirebbe (anche se invitandolo da me non è mai venuto) se non fosse che, quando si va a mangiare fuori o si prende una pizza d’asporto, lui non si degna nemmeno di offrirmi una pizza (5 euro), almeno come gentilezza per ricambiare il sacrificio e la spesa fatta da me… Gli ho fatto notare ciò, ma non c’è peggior sordo e ha tirato fuori il discorso dell’emancipazione. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Lei. La ringrazio.
P.S. Mi permetto di proporle un’idea: perché non scrivere un libro, un manuale, su come fronteggiare i piccoli e grandi soprusi quotidiani? Lei da buon psicologo ed esperto, da anni, di casi umani, potrebbe dare utili indicazioni.
Certe forme, talvolta molto sottili di soprusi e di vaga violenza, cioè di violenza inespressa, hanno il dono della ubiquità: sono cioè dappertutto. Lei mi chiede un parere sulla tipologia dell’uomo che frequenta. Bene.
Dalla descrizione molto precisa che ne fa, questo signore corrisponde in maniera lampante a quello che in psicoanalisi viene denominato carattere anale. Si dice così in riferimento a una fase dello sviluppo psico-sessuale del bambino, allorquando questi giunge a vivere con piena coscienza la propria attività escrementizia e quindi le vicissitudini relative all’operazione del ritenere e dell’espellere. Se ci sarà una fissazione a questa fase, l’adulto in questione presenterà alcune caratteristiche distintive che vanno da una esagerata tendenza all’ordine, alla critica, alla puntigliosità, alla pulizia (sono soggetti che spesso si chiedono se l’altro si è lavato abbastanza, mentre essi stessi possono avere le unghie sporche!), al controllo di sé e dell’altro, talvolta in modo estenuante, ripetitivo fino all’abitudine (e così veniamo al punto) di controllare ciò che dà e ciò che riceve, soprattutto ciò che “ritiene” e ciò che “espelle”.
Di fatto questo signore che lei frequenta “ritiene” molto ed “espelle” poco o niente. Neppure 5 euro per una pizza, magari di tanto in tanto. Ricordo di una moglie che lamentava un fatto assai singolare: al bar, il marito esigeva che lei pagasse la metà del caffè consumato assieme, adducendo, perbacco!, ideologizzazioni emancipative e di giustezza!
I chiacchiericci pseudo ideologizzanti, di queste tipologie sono infiniti, pretestuali, fasulli e noiosi. L’importante è non “espellere”. Di certo lei ha un legame importante con lui che le permette di accollarsi la fatica di viaggiare per ore con quel che le costa. Il parere gliel’ho dato. Le darei anche un suggerimento contro l’ “analità” di lui. Dopo aver gustato insieme una pizza, meglio un gran pranzo, al momento della resa dei conti, dichiari con un’espressione tutta angelica che ha lasciato il portafoglio a casa. Scambiarsi amore significa donarsi. L’emancipazione è altra cosa. Il donarsi non lo si mette sulla bilancia per pesarlo. La ringrazio infine per la proposta che mi suggerisce circa un libro dove si tratta di questi fatti.
Dovevo arrivare a 32 anni per sentirmi dire da mio marito che allucino e che per questo avrei dei “problemi”. Il che significa che sarei matta!
Io gli U.F.O. non li sogno, li vedo per davvero. L’ultima volta, ero con un’amica e ne abbiamo visto uno, insieme. Allora, anche la mia amica allucina? Mio marito dice di sì, perché la mia amica, appena laureata in psicologia, è suggestionata da me, che studio astronomia. Ieri abbiamo avuto un forte battibecco. Lui mi ha insultata urlandomi che sono una visionaria e io, a mia volta, gli ho dato del cretino! Giuro…è mancato poco per venire alle mani!
Tornando agli U.F.O., la mia amica ed io siamo molto stupite che un’autorevole personalità come Jung, psicologo di chiarissima fama, non ammetta l’esistenza, peraltro accettata quasi da tutti, degli U.F.O. spiegandoli come “proiezioni psichiche” dell’inconscio umano. Ma possibile che una realtà come quella degli U.F.O. debba essere spiegata con la psicologia? Possibile che io debba essere considerata visionaria come dice quel saccente di mio marito? Possibile che, altrimenti, siamo tutti anormali? Lei dottore è normale? Sono arrabbiata e non credo che mi risponderà, ma grazie lo stesso!
Lettera firmata
Al contrario, come vede, le rispondo volentieri. A suo beneficio e della sua amica, devo ammettere che le affermazioni di Jung al riguardo possano dar luogo a fraintendimenti.
Proverò a chiarire il senso dell’ipotesi junghiana, più nota agli psicologi e meno agli ufologi. Jung tenne bene in mente che l’esistenza degli U.F.O. era ormai stata dimostrata al di sopra di qualsiasi dubbio, mediante schermi radar. Jung sostenne l’ipotesi secondo la quale gli U.F.O. “sono apparizioni materiali, entità di natura sconosciuta (…) che erano già visibili forse da lungo tempo, agli abitanti della terra, ma che per il resto non hanno con la terra o i suoi abitanti rapporti di nessun tipo (…) i contenuti dell’inconscio si sono proiettati negli inspiegabili fenomeni celesti e hanno attribuito loro un significato che non spetta loro affatto” (cfr. C.G.J, Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo.)
Gli U.F.O., in quanto tali, cioè in quanto oggetti sconosciuti ma reali, esistono, dunque; soltanto che il significato che noi ne abbiamo dato, ossia di civiltà extraterrestri che ci spiano, ci studiano, intendono aiutarci o, peggio, aggredirci, non è fondato su nessuna prova valida. Certo, è ben presuntuoso, a mio avviso, immaginarci gli unici esseri viventi e intelligenti del Cosmo, come quando – qualche secolo fa – immaginavamo il sistema solare ruotarci intorno e l’intero Cosmo una nostra appendice.
A proposito della sua rabbia, è augurabile che l’acceso scontro per via degli U.F.O. tra lei e suo marito con i fioriti epiteti di “visionaria e cretino” non nasconda nel vostro rapporto qualcosa di più opaco lontano le mille miglia dagli U.F.O. che in tal caso va considerata solo occasione pretestuosa per accapigliarvi. Alla fine della sua lettera, lei mi chiede se sono normale. Ebbene no. Non lo sono, ahimè. Mi mancano due diottrie. Auguri.
Durante le convivenza forzata, imposta dall’epidemia, mi sono accorta della reale situazione tra i miei genitori. Certo non ci sono maltrattamenti, scontri fisici, per fortuna. Sembrano però sempre arrabbiati, non si sopportano, scattano per niente, litigano per sciocchezze. In altri momenti si ignorano come due estranei. Sempre così.
Tutto questo mi tiene continuamente in tensione, mi toglie le energie, mi impedisce di concentrarmi sulla scuola. Chiedo a lei… quella che vivo io è una situazione che può avere delle conseguenze su di me e si rifletterà sulle mie future relazioni sentimentali? Ho compiuto da poco 18 anni. Grazie.
Lettere firmata
In questo protratto periodo di confinamento e dunque di convivenza forzata, emozioni e sentimenti sommersi tenuti a bada inconsciamente emergono gradualmente o del tutto subitaneamente con grande ansia e stupore di quelli stessi che li provano.
Nelle relazioni sentimentali e soprattutto quelle che perdurano nel tempo, le parti ostili (che abbiamo tutti) vengono rimosse, silenziate, lasciando così il predominio all’affetto, alla comprensione. Questo accade di norma. Ripeto: di norma!
Non più in stato, per così dire, di “cattività”, cioè quando due conviventi, sia pure per circostanze emergenziali relative alla salute pubblica, sono imbullonati a vivere ventiquattro su ventiquattro in “gabbia” per lunghi periodi.
Le tante ore di distacco per lavoro, lo stare lontani per un bel po’ nel corso della giornata è salutare, poiché ciascuno vive un mondo di cose e di avvenimenti che, per quanto possa essere faticoso, ha il merito di non rimanere incistato in casa col partner, con i figli (non potendo più girarsi altrove). Se, nonostante il confinamento, continua a predominare l’affetto vuol dire che le parti rimosse (ostilità e aggressività) sono ben tenute impalpabili da qualche parte. In questi casi, può insorgere un disappunto, un broncio che prima non c’era, uno sbuffo in più, un’insofferenza episodica, un fastidio. Roba di poco conto.
Ma se la temperatura sentimentale dei due partner era già ridotta all’osso, allora col confinamento e col fiato corto, ciò che era sommerso, irrompe in tutta la sua ampiezza, con la forza di un uragano.
A quello che lei mi chiede nell’ultima frase, rispondo che è doloroso trovarsi davanti un modello genitoriale che oggi non è quello che era abituata a vivere. Si tratta ora di fare i conti con qualcosa che dava per scontato, che non aveva mai messo in dubbio.
Non credo che la sua paura possa avverarsi.
Lei è cosciente del suo dolore. E il dolore fa crescere, perché ci pone in condizioni di riflettere, e riflettere significa comprendere, e comprendere vuol dire diventare grandi, adulti.
Da quando è mancato mio nonno, una parte fondamentale della nostra famiglia, in casa c’è molta tristezza e rabbia. Ho sempre avuto un bel rapporto con i miei genitori, ma ora sento che si sta sgretolando piano piano.
Da quando ho perso mio nonno le cose non vanno bene, neanche con me stessa. Ho pianto e provato così tanto dolore che ora non riesco più a provare nulla, infatti mi sento apatica nei confronti di tutto e di tutti.
Sento di aver perso la mia sensibilità, come se non riuscissi più a provare dolore perché ne ho provato tanto in un singolo momento. Quando mi capita di litigare con i miei, non mi interessa più, non ci rimango male ed è una cosa che mi spaventa, non capisco, la trovo strana.
Oltre a questa perdita di sensibilità, da quando è morto mio nonno ho sempre paura di perdere altre persone a me care… è diventata quasi una paura ossessiva. Non voglio provare più il dolore che ho provato per mio nonno… sarebbe devastante e non credo di riuscirci.
Come posso ritornare a essere com’ero prima della perdita di mio nonno?
Grazie mille. Una ragazza di 16 anni.
Lettera firmata
La dipartita del nonno ha rotto degli equilibri, forse anche nella dinamica familiare.
Il dolore che hai provato e che ti ha trasformato in apatica e insensibile deriva dal fatto che stai ancora facendo fatica ad elaborare quel lutto che ha i suoi tempi.
Questa sconvolgente perdita è direttamente proporzionale alla fortuna di aver avuto un nonno davvero speciale.
Permettimi di dirti una cosa.
Se tuo nonno potesse vederti e sentire quanto stai male oggi da quel giorno, di sicuro ti rimprovererebbe con un dolce sorriso e ti direbbe: “Basta con queste paure, basta con questa chiusura. Ci sono anche i ricordi belli, saldi, creativi e questi devono metterti al riparo quando, appunto, ne hai tanto bisogno, come oggi”. Questo ti direbbe quel nonno speciale che si aspetta di veder crescere la nipote che vuole altrettanto speciale.
Sèguita a farlo “vivere” attraverso le nuove esperienze di vita e a far tuo il più possibile tutto ciò che sul piano psico-affettivo hai ereditato da lui.
Non puoi veramente pensare di “ritornare a essere come prima della perdita” di tuo nonno. Non solo non puoi, non devi. Il nonno ha lasciato questo mondo ed è certo che si augura che tu smussi il cordone ombelicale con lui per aprirti ad altri affetti, ad altra vita.
Gentile dottore, tempo fa una mia cara amica mi rivelò che la figlia di vent’anni era seguace di non so quale setta o “chiesa” americana con filiale in Italia, promuovente esperienze spirituali, perfino mistiche, con l’assunzione non della collaudata ostia consacrata, ma di sostanze psichedeliche.
La ragazza infatti andava in estasi, così disse sua mamma, si incontrava con altri giovani, parlavano e si confidavano molto. Anche con me la ragazza una volta si è confidata. I discorsi che faceva però mi parvero inconcludenti e dispersivi, anche se l’impressione che ne ebbi fu di ragazza buona, docile. È possibile ottenere l’estasi mistica con le droghe?
Sono un’insegnante di scienze naturali e resto scettica. Sono anche preoccupata per la mia amica e per sua figlia. Se può, per favore, mi dia qualche delucidazione o qualche consiglio. Farei leggere subito la sua risposta alla mia amica. Grazie.
Lettera firmata
Anni fa, le “chiese” psichedeliche più famose in America erano quattro: la “Lega per la scoperta spirituale”, fondata dal dottor Timothy Leary; la chiesa neo-americana, fondata dallo psicologo Arthur Kleps; la “Native American Church”, fondata da più di 80 anni degli indiani d’America e la “Chiesa del risveglio”, fondata da due medici, i dottori John e Louise Aiken. Queste “chiese” sollecitavano l’assunzione degli allucinogeni (che si ostinavano a chiamare “sostanza sacra”) onde invocare, a piacimento, la produzione dell’esperienza “mistica”. Non a caso ho adottato il termine “produzione”. Oggi, in una società dove il consumismo di massa, divenuto ideologia, ha trasformato nella gente quello che all’origine era un naturale bisogno di consumo in una ossessiva e straripante mania consumistica, non sorprende affatto che perfino l’estasi mistica venga venduta come prodotto di consumo, alla pari della carne in scatola e della frutta sciroppata!
Il termine “psichedelico” significa “che illumina i recessi della mente”. Si dicono anche “allucinogeni”, poiché essi suscitano una sensazione di pazzia o esperienza di coloritura religiosa, con sensazioni di policromia sonora e polifonia ottica sorprendenti. Tali sostanze vengono anche definite “psicotomimetiche”, poiché simulano gli effetti delle psicosi.
Dato che il quadro allucinogenico provocato dalla droga (in tal caso dalla LSD) sembra simile a quello della schizofrenia, si credette di aver trovato la chiave che avrebbe svelato i segreti di una delle più sconcertanti malattie mentali che colpisce l’uomo. Ciò giustificò (anche se se ne abusò) l’uso della LSD in svariati casi: nell’uso degli psicotest della personalità, nell’alcolismo, nella cura degli stati depressivi e perfino nello studio dei fenomeni extrasensoriali in soggetti sensitivi.
A parte gli storici della medicina, pochi altri sanno che solo nel 1967, la LSD, che era in commercio con il nome di Delysyd, fu ritirata e ne fu impedito l’uso “terapeutico” e sperimentale.
Studiando le loro autobiografie, i mistici, quelli veri, giungono alla loro estasi partendo da motivi religiosi e la loro stessa trance è ricca di contenuti religiosi, soprattutto vi giungono senza droghe!
Penso infine che un qualsivoglia invito a credere e a sollecitare concezioni spirituali debba favorire nell’uomo la comprensione, la responsabilità, la creatività e la tolleranza. Se un tale seguace di una “chiesa” psichedelica “adora” – poniamo – la LSD (perché la droga lo disimpegna dalle normali complessità del vivere affettivo e del vivere sociale, deresponsabilizzandolo), pur professando una “religione” (in tal caso: la mistica della droga), allora la sua segreta religione è quella della droga, mentre la sua cosiddetta religione ufficiale, il suo misticismo non è altro che una ideologia che gli fa da alibi.
Le faccio i miei auguri per la sua amica e la di lei figlia.
Da quando sono entrata nell’adolescenza, sono cambiata drasticamente.
Ho forti impulsi ad allontanare o respingere chiunque veda oltre questo muro di sarcasmo che uso come corazza e protezione. Ho amato una persona che ora è sparita dalla mia vita e da quel giorno passo da una persona all’altra. Avevo pensato di essere molto più “cattiva” di come mi piace apparire. In casa con la mia famiglia sono molto lunatica, a volte, addirittura isterica senza nessun apparente motivo.
Questa mia corazza mi sta davvero cambiando ma soprattutto non trovo la forza e la voglia di cambiare o dare la valenza necessaria alle persone a me vicine. I miei amici accettano questo mio muro, capiscono che io non sono del tutto così, mi fa soffrire questa continua ricerca di qualcuno stabile anche se mi spaventa molto provare emozioni come l’affetto, l’interesse verso qualcuno o addirittura più che solo interessamento.
Lettera firmata
Quanto vuoi ancora resistere nella tua gessosità? D’accordo, hai amato e, anche se non conosco i dettagli che hanno posto fine a quell’amore, mi sembra di capire che tutto quel che ti è capitato da quel momento deludente e triste sia una reazione ad esso. Una cosa è certa: se hai amato allora, significa che non ti manca la capacità di amare ancora!
Però ti sei arroccata, ti sei imputata. E questo segnare il passo ti porta a cambiare un ragazzo dietro l’altro. Non ti interessa conoscerli, ma cambiarli! Dici di non apparire abbastanza “cattiva” quanto vorresti.
A me non pare di intravedere “cattiveria”, ma rabbia con la quale stai facendo il pugno di ferro. Non riesci a tenerla a bada poiché non hai elaborato e, dunque, sciolto il dolore che, come dico sempre, stagna subito sotto la rabbia. Parli di corazza. È comprensibile corazzarsi contro le avversità e gli attacchi del mondo esterno. È anche comprensibile corazzarsi contro gli affetti, quando si ha paura di perderli. Tuttavia, tu non sai (come molti) che la corazza che inizialmente ti costruisci per non soccombere sotto gli impegni della vita affettivo-emotiva, col tempo diventa pesante, sempre più pesante da indossare, sì da impedirti il movimento.
Vuoi rimanere così con questa corazza pesante che ti immobilizzerà, facendoti apparire (ma solo apparire) inattaccabile, inespugnabile, astiosa, “cattivella”, oppure vuoi cominciare a buttarne qualche pezzo e via via sdossartene del tutto senza più timore di presentare al mondo le tue parti belle, sane, la tua dolcezza, la tua amabilità, ma anche la tua vulnerabilità?
A te la scelta.
I miei auguri.
Salve dottore, sono una studentessa di sedici anni. Sento la necessità di parlare con lei di un contesto che mi fa male moralmente e mi porta a scatti d’ira, ansia e paure continue. Fidanzata da otto mesi con una ragazza, dopo cinque ho fatto coming out coi miei genitori.
Essendo una ragazza mascolina fin da bambina, il periodo dalla fase di negazione a quella di accettazione è stato molto breve. Il problema sta nel fatto che purtroppo i genitori della mia ragazza non hanno fatto lo stesso… attualmente sono a conoscenza solo di un suo sentimento nei miei confronti e del suo essere… che non capendo e non accettando, pensano sia dovuto a una mia influenza su di lei.
Ci hanno dato il permesso di vederci solo ed esclusivamente al di fuori delle proprie case.
Abituate a vederci più volte a settimana e vivendo fatti quotidiani, ci siamo ovviamente ritrovate di fronte a determinate mancanze.
Tutti questi dolori ( il non essere accettata dai propri genitori, le litigate con loro, le sue e le mie insicurezze) vengono riversati sulla nostra relazione.
Ho pensato di parlare coi suoi genitori, ma sono arrivata alla conclusione che, essendo io la causa di questa situazione e non essendo vista in buona luce, peggiorerei solo la situazione.
Mi trovo in uno stato di impotenza, ogni giorno vedo la mia ragazza soffrire e piangere, e non riesco a fare niente per farla stare meglio.
Dovrei far fare al tempo? Agire?
Spero abbia compreso la situazione, la ringrazio.
Lettera firmata
Questa sì che è una situazione intricata. Ciò nonostante, hai mostrato di essere una ragazza saggia quando dici : “Ho pensato di parlare con i suoi genitori, ma sono arrivata alla conclusione che, essendo io la causa di questa situazione e non essendo vista in buona luce, peggiorerei la situazione”. Ecco una scelta ponderata.
Non so come sta intimamente la tua ragazza. Dici che soffre, piange e tu ti senti impotente, perché non sai che fare affinché stia meglio.
Io dico che sarebbe assai utile capire più a fondo se sofferenza e pianto di lei siano ravvisabili alla drastica riduzione delle frequenze, questa volta fuori casa, tra voi due oppure a qualcosa di più sottilmente soggiacente che è a monte, cioè avulso dalla relazione con te e dagli atteggiamenti attuali dei suoi genitori a fronte della vostra relazione nella quale essi pensano che tu sia la “conduttrice”.
Agire? Sì, agisci ma con lei e con tutta l’intelligenza, l’affetto e il tatto che di sicuro non ti mancano.
Dunque, senza trainarla per forza dalla tua parte o corroborare critiche ai genitori, agisci nel senso di rassicurarla che il vostro affetto è saldo ma, al tempo stesso, se ci riesci, aiutala a sondare se c’è qualcos’altro che le fa male, al di là della coppia, nonché dai comportamenti repressivi dei genitori.
Salve, sono un ragazza di 16 anni. Da circa tre anni il mio rapporto con mio fratello di ventidue anni può essere considerato inesistente. Tra di noi non è mai esistito un dialogo costruttivo e le poche volte che ci parliamo è per criticarci a vicenda o per insultarci; mi sono resa conto che da parte mia c’è un rifiuto continuo nei suoi confronti, non voglio che mi parli, non voglio stare nella stessa stanza e penso sia anche a causa mia se il nostro rapporto è così incrinato.
Lui mi fa sempre capire che non gli interessa nulla di me, anzi appena trova un pretesto mi prende in giro per qualsiasi cosa. Quando penso a lui provo una fortissima rabbia e un grande fastidio; a volte sento una grandissima tristezza e molta frustrazione che però mi impegno a non mostrare a nessuno perché proverei un grande senso di vergogna.
Nonostante io abbia un bellissimo rapporto con i miei genitori e con le mie amiche, non parlo mai di questo lato vulnerabile. Sto male quasi ogni giorno e, se prima era facile da ignorare, in questo periodo i miei pensieri tornano spesso a questa mia problematica. Lei che cosa mi consiglierebbe di fare? La ringrazio.
Lettera firmata
Cosa è accaduto tre o più anni fa quando il rapporto con tuo fratello subì una tale trasformazione da divenire, come dici tu, “inesistente”?
Questo non mi è dato sapere.
Per inciso, i rapporti “inesistenti” non esistono. Nel tuo caso, poi, al contrario, direi che il tuo legame con lui non solo esiste, ma, per così dire, esiste troppo! Voglio dire che il tuo legame con tuo fratello ha una carica conflittuale così forte e collosa che, misconoscendone gli aspetti causativi originari, è difficile aiutarti a ridurre il peso di questa figura che, di sicuro, tuo malgrado, giganteggia nella tua vita. E giganteggia a tal punto che, pur avendo un rapporto bellissimo coi tuoi genitori, con le amiche, eccetera, tu rimani monoliticamente appiccicata a lui sciaguattando in un mare di rabbia e tristezza che ti fa male.
E i tuoi genitori? Possibile che non abbiano avuto sentore di nulla? Possibile altresì che, pur avendone sentore, non abbiano a tal riguardo assunto un qualche atteggiamento di disappunto, insomma che non abbiano mediato nemmeno un po’? Non so.
Comechessia, se qualsiasi cosa vi diciate, se qualsiasi tentativo di conversazione presto fallisce poiché l’esito scade in umiliazioni, insulti e sarcasmo (nota che il sarcasmo, diversamente dall’ironia, è espressa aggressività), allora c’è qualcosa di profondamente oscuro che né tu né lui sapete di voi stessi.
La fuga da lui è essa stessa psicologicamente fatale o quanto meno inghipposa e inconcludente quanto il silenzio (peggio dei punzecchiamenti senza fine).
I casi sono due: o cerchi di comprendere quali erano le tue aspettative nei suoi confronti (affetto, sostegno, considerazione, complicità), regolarmente disattese e quindi ne accetti il dolore così da sciogliere i legacci con lui, sì che, modulando le tue condotte, diventi più autonoma perché ti sei scollata da lui, oppure tenti di apparire “inesistente”, cioè non chiedergli più niente, non aspettarti alcunché, ma limitati a salutarlo benevolmente (se ci riesci) e se dovesse chiederti qualsiasi cosa, tu rispondi, in modo quasi surreale, (è solo un espediente), volgendo il capo verso una finestra: “Oggi potrebbe essere una bella giornata!”.
Quindi, lentamente vai altrove (esci di casa o cambia stanza), prima che lui ti sferri qualche dardo e se invece lo ha già lanciato mentre vai, fa’ come se non ti avesse sfiorato e ripeti con certa enfasi: “Sì, (fai una pausa) oggi è proprio una bella giornata!”…Prova. Vediamo che succede. Magari stupisce, magari pensa, magari chissà… Se vorrai, fammi sapere come è andata.
Salve, ho 16 anni. Quest’estate sono cambiate molte cose nella mia vita, ho avuto l’opportunità di conoscere nuove persone e ho avuto le mie prime esperienze amorose.
Il primo è stato un ragazzo di cui ero molto attratta, lo trovavo interessante. Siamo usciti insieme e siamo stati molto bene. Nei giorni seguenti ho visto che anche lui era molto interessato a me. Da quando ho notato questo, il mio interesse nei suoi confronti è svanito…non ne provavo neanche un po’. Mi sono preoccupata molto.
Poi ho conosciuto un altro ragazzo, molto simile a me, avevamo molte cose in comune. Ero interessata e anche tanto, pensavo quasi di esserlo troppo. Appena ho visto che mi corrispondeva, tutto il mio interesse è svanito. Mi sono posta molti dilemmi, mi sono sentita come se fossi io il problema e ho paura che sia davvero così, non saprei come risolvere la situazione. Lei cosa mi consiglia? La ringrazio.
Lettera firmata
Il ragazzo “ideale” per te, in questo momento della tua giovane vita, è quello che non cederà “all’infinito” alle tue profferte o approcci. Non cesseresti di interessarti a lui, ti sembrerà sempre più interessante, bello e affascinante, e questo perché in tal modo ti sentirai nell’acqua bollente e farai di “tutto” per conquistarlo, ma lui essendo sordo ai canti della sirenetta ti permetterà di proseguire nella tua melodia per tantissimo tempo…
In fondo c’è una ricerca coatta del ragazzo da respingere subito o quasi subito, ovvero quando hai preso coscienza che l’altro tiene a te, giacché la tua freccia di cupido lo ha colpito. Forse, in questa area, c’è anche il bisogno illusorio di conferme che puoi raggiungere chiunque con la “malia” del tuo “canto”.
Certo, non lo fai apposta, ma ti succede così, con tutto ciò che ti costa in delusione e amarezza. È anche possibile un’altra ipotesi, ovvero che le tue scelte sono deputate al fallimento poiché una lettura inconscia dei tantissimi indici paraverbali dell’altro ti rende semicosciente del fatto che lui non è quello che vuoi. Poi, a “fatica fatta”, ti accorgi, tuo malgrado (giacché ora ne hai preso ampia coscienza), che la scelta non è di tuo gradimento e allora ne perdi tutto l’interesse. Alla fine, è una di queste ipotesi la spinta motivazionale che predomina nella tua cosiddetta ricerca, sebbene il motivo profondo non c’è dato sapere.
Potrebbe esserti utile l’accadimento di una situazione esattamente opposta, cioè che il ragazzo, dopo una prima corresponsione, non tenga più a te. Utile, poiché questa volta ne rimarresti addolorata (sarebbe una ferita per la “maestà” dell’Io). E il dolore esperito alla tua giovane età può donarti un momento di crescita, che può equivalere a un correttivo del tuo stile, a un cambiamento del tuo girarti attorno senza nutrirti e colmarti. E ti dico questo pur essendo ben lontano dal proporre il culto del dolorismo.
Sono cresciuta in una famiglia dove mi sono sempre sentita giudicata, disprezzata e per questo sono stata molto male, ma non mi sono mai ribellata. Sarò maggiorenne tra poco e non ho nemmeno un po’ di libertà. Mi sono sentita e mi sento ancora ora un errore perché è così che mi descrivono.
Da un anno sto segretamente insieme ad un ragazzo. Dall’inizio è stata una cosa seria per tutti e due, ma non ho avuto il coraggio di dirlo ai miei genitori per la loro mentalità molto chiusa ma soprattutto perché lui proviene da una cultura e da una religione diversa dalla mia. Non lo avrebbero accettato e io volevo stare davvero con lui. Non ce la facevo più a nascondere tutto, avrei voluto parlare con mia madre sperando che mi capisse ma mi hanno scoperta prima.
Lei ora afferma che sono una bugiarda, che nella mia vita non ho fatto altro che mentire e continuerò a farlo e non mi crede più. Non fanno altro che parlare del “peccato” che ho commesso. Vogliono che io lo lasci, che mi allontani da lui. Mio fratello prima mi appoggiava e sapeva tutto ma ora non mi parla più. Non voglio che tutto finisca, lui è davvero importante per me. Vorrei che i miei genitori accettassero la mia scelta perché è davvero quello che voglio. Non so più cosa fare.
Lettera firmata
Non sarà un credo religioso a ridurre la tenuta del tuo innamoramento, per quanto giovane tu sia. Non ti sei mai ribellata, dici. L’innamorarsi di un ragazzo di religione diversa, ben sapendo quanto rigidi sono i tuoi, è sostanzialmente anche una forma di ribellione a pieno titolo!
Comprensibile che le tue reiterate bugie abbiano col tempo indotto i tuoi genitori a sfiducia e disistima. Che poi ogni occasione è buona per darti addosso è cosa discutibile non poco. Certo, per i tuoi genitori cristiani è un “colpo gobbo” che conferma ai loro occhi tutta la tua diversità da loro, dalle loro credenze e la tua lontananza dal legame. Devo supporre che se hai sempre agito un po’ di nascosto o non hai mai detto le tue verità, avrai avuto già un problema nella relazione psico-affettiva e di fiducia con i tuoi genitori, corroborato anche dal pensiero della loro, diciamolo ancora, rigidità.
Il punto cruciale quanto concreto a me pare il seguente. Il rapporto coi tuoi genitori (cui si è aggiunto oggi anche il fratello che non ti parla più!) è un non–rapporto, voglio dire un rapporto di estrema difficoltà, che sembra imbullonare anche l’opportunità di incontrarsi, per non dire confrontarsi. Ormai, per i tuoi genitori tu sei un “errore” e, allora, che tu dica il vero o il falso, o che tu faccia promesse inedite, cambia poco. Ora, mettendo da parte le origini remote e preremote che sono a monte del rapporto disfunzionale con i tuoi e che restano ovviamente oscure, dei due l’uno: o lotti con sincerità, facendo valere le tue ragioni di ragazza innamorata con garbo e raziocinio in attesa che loro comprendano e che magari la circostanza potrebbe perfino schiudere la possibilità di un avvicinamento, oppure seguiti a barcamenarti come hai ben fatto finora, per quanto costi.
Io suggerirei il primo. Non perdere la speranza di confrontarti coi tuoi.
Le scrivo per avere un po’ di conforto, finalmente c’è qualcuno che mi ascolta. L’adolescenza è un periodo delicato, difficile, ma io la vedo impossibile da sostenere. La vita a casa mia è tutt’altro che facile, vivo in un ambiente di perenne tensione e paura, convivo con mio padre ma è come se fosse un estraneo e mia madre mi fa sentire sempre inferiore, come se non fossi mai abbastanza.
Mi rendo conto di stare male a casa, non perché i miei facciano qualcosa, ma proprio per quello che non fanno: dialogo e parole gentili non esistono. Al di fuori della vita domestica sto relativamente bene; a scuola, seppur l’ambiente sia buono, mi sento costantemente in ansia e giudicata, senza un preciso motivo. Ho degli ottimi amici, persone che a me tengono, eppure ci sono momenti in cui penso che non mi vogliano bene davvero, di essere un peso per loro e che passano il tempo con me solo per compassione. Ci sono momenti in cui penso di star bene e proprio in quei momenti mi assale una sensazione d’ansia, si fanno spazio pensieri negativi e per quanto provi a scacciarli hanno la meglio, facendomi fare cose che non vorrei.
Spero di non averla annoiata. Confido in un suo parere.
Lettera firmata
Vivi tuo padre come “estraneo” e tua madre ti fa sentire inadeguata. A scuola l’ambiente è buono e tuttavia “senza un preciso motivo” ti senti in ansia e giudicata. Infine, anche se ti si vuol “bene davvero”, non ci credi tanto. Sarebbe assai utile comprendere le ragioni sommerse che ti fanno sentire così: in ansia e giudicata e che, pure ben voluta, stenti a crederlo.
Ancora, ti assalgono pensieri negativi che ti inducono a fare cose che non vorresti. Non dici però quali cose… La sensazione di “estraneità” che ti trasmette tuo padre mi fa pensare che forse lui sta male per conto suo. Questo inevitabilmente si riverbera su di te, rimandandoti una forma di assenza, di chiusura. Se è “estraneo” lui, non lo essere anche tu. Come? Prova a comunicargli qualcosa di te, ma in breve. Non dargli l’impressione di interrogarlo, di chiedergli niente, salutalo garbatamente, tenta un sorriso e non aspettarti necessariamente che lui faccia altrettanto. Quando incontri tua madre, mostrale di essere contenta di vederla e quando dovesse ancora frustrarti circa la tua “inettitudine” (o, come dici tu “mi fa sentire sempre inferiore”), dille che sì, al momento è così, ma che hai tutta la volontà di migliorare, anzi chiedile tanti consigli a tal riguardo!(Questa è una strategia paradossale mirata a stupirla).
Sèguita così per una settimana e poi, se vuoi, scrivimi ancora per farmi sapere come è andata.
Da molti mesi la mia vita si è fermata. Un giorno ho scoperto casualmente che mia sorella viene pesantemente maltrattata da suo marito: non ho mai sospettato nulla, anzi pensavo che il loro matrimonio funzionasse, né più né meno di tanti altri. Ho visto i lividi di mia sorella, ascoltato le poche cose che ha voluto dirmi e raccolto la sua implorazione: “Non dire niente a nessuno perché non voglio”.
Sono infermiera ad Asti e potrei aiutarla parlando del suo problema a qualche medico oppure facendola incontrare con qualche specialista. Invece, poiché lei non vuole essere aiutata, non posso fare niente.
Questa impotenza mi riempie di dolore perché ogni giorno mi chiedo che giorno sarà per la vita di mia sorella. La mia è tuttora sconvolta da questa domanda a cui non riesco a dare una risposta: rispettare la sua scelta e fare finta di niente o agire autonomamente e trovare una soluzione che la protegga? Non so darmi pace.
Lettera firmata
Si sente acutamente la sua apprensione per sua sorella che è uscita dall’isolamento e le ha confessato il suo penoso travaglio, implorando al tempo stesso: “Non dire niente a nessuno perché non voglio”. Quindi, da una parte le chiede aiuto, ma dall’altra è spaventata. Lei non sa che fare… alla vista dei lividi.
Non è vero che non può fare niente. Esca dal suo vissuto d’impotenza e vada a trovare sua sorella, potendo, anche tutti i giorni con nella mente un obiettivo preciso da elaborare assieme a sua sorella, in lungo e in largo. Eccolo.
Una volta giunti a maltrattamenti fisici che generalmente si susseguono a quelli psicologici (denigrazioni, umiliazioni, ricatti, minacce, etc.), convincersi – contrariamente a quello che pensano i più- che è assai esigua la speranza di riprendere il rapporto col marito, in una dimensione di benevolenza coniugale. Sua sorella non prende la porta e va (l’avrebbe già fatto, altrimenti) giacché sovente uno dei motivi per cui la donna vittima non va via è dovuto all’attaccamento emotivo al partner-abusante (marito, convivente, fidanzato) nella speranza (in realtà effimera) che il rapporto migliori.
Tenga presente che i partner violenti, in genere, dopo maltrattamenti psicologici (prima fase) e percosse (seconda fase) alla donna vittima, sono regolarmente capaci di lacrimare per farsi perdonare, giurando che non accadrà più e, così prostrati, promettono grandi cambiamenti. È proprio in questo momento che mostrano la loro buona volontà divenendo molto generosi, comprensivi, disponibili e, insomma, proponitori di una nuova “luna di miele”. Questo è un altro motivo per cui la donna-vittima non lascia l’uomo-abusante. Finisce col credergli. Senonché la cosiddetta “luna di miele”, a quanto sostengono i maggiori studiosi del settore sulla scorta di un’ampia casistica, durerà poco, troppo poco per poi ricominciare non come ma peggio di prima. È una situazione ciclica.
“Ciclo della violenza e abuso intermittente si sovrappongono nella spiegazione del perché le donne non lasciano i rapporti abusivi e del perché queste relazioni si mantengano nel tempo” (E. Reale, Maltrattamento e violenza sulle donne, Ed. F. Angeli, volume II pag. 91).
Da tenere poi ben presente che il momento più pericoloso per la donna maltrattata è quando ha deciso di andarsene e di lasciare l’abusante. Per questo è assolutamente necessario pianificare in sicurezza l’allontanamento e la definitiva rottura del rapporto col partner, di modo che non ne esca danneggiata (cercando l’intervento di professionisti del settore: avvocati e centri antiviolenza).
Dunque, lei non farà finta di niente né agirà autonomamente all’oscuro di sua sorella. Ora ha un bel po’ da fare per e assieme a lei.
Per inciso, tengo a dire che quelli che credono ingenuamente di ricondurre il tutto (lividi compresi) a una momentanea “conflittualità di coppia” e che poi tutto si ricomporrà, ignorano lo stato emotivo-cognitivo della donna vittima la quale, una volta precipitata in questa dinamica, vi rimarrà incollata sviluppando una specifica sindrome (appunto: sindrome della donna maltrattata) con forti stati d’ansia, sintomi psicosomatici, disistima, isolamento, perdita del senso di sé e depressione.
Faccio i miei auguri per questa lotta assai delicata e al contempo ardua a lei e alla sorella e, se vorrà, mi tenga al corrente di come sta procedendo.
Che la nostra professione di psicologi ci esponga a rischi legati alle problematicità dei pazienti che abbiamo in cura è un dato di fatto. Confrontandomi con alcune colleghe, è risultato che siamo state, o siamo tuttora, oggetto di attacchi e comportamenti aggressivi da parte di mariti, compagni, conviventi delle nostre pazienti. Ci ritengono responsabili dei loro cambiamenti e delle loro scelte, ad esempio aspirare ad una maggiore autonomia, interrompere una relazione, desiderare di separarsi… e noi diveniamo bersagli di insulti, molestie, minacce. Alcune di noi hanno dovuto sporgere denuncia.
Ho seguito una costruttiva formazione professionale con lei, tempo fa, e le chiedo se come supervisore anche lei registra un incremento di questi episodi e se ritiene che noi, psicologhe, proprio in quanto donne, siamo maggiormente esposte a questi tipi di attacchi.
Ancora una volta grazie per il suo parere.
Lettera firmata
Assolutamente sì, purtroppo. Non solo è molto vero, ma è più diffuso di quanto si creda. Molti sono i tentativi invasivi nei confronti delle psicologhe, sol perché donne, da parte di figure parentali o partner disvoluti.
Intendiamoci, succede anche a psicologi uomini, ma è molto meno frequente. Non è casuale che alle donne-psicologhe accada invece molto spesso.
Da notare poi che le tecniche della violenza psicologica sono esattamente le stesse usate contro la partner-vittima: critiche, accuse, intimidazioni, ingiurie, insulti, a cui si aggiungono molestie assillanti con telefonate quando la di lui partner sta per venire in seduta e/o quando se n’è andata (o, peggio, quando la seduta si sta svolgendo), e infine minacce.
Tutto questo genera tensioni, un surplus di stress e ansia: proprio ciò che il molestatore si aspetta. È un fatto che il partner lasciato, o in procinto di esserlo, sposta l’asse aggressivo dalla partner-vittima alla psicologa. Non consola sapere che si tratta di una proiezione inconscia tout-court o semplicemente di trovare un capro espiatorio, poiché gli è stato tolto il giocattolo da martirizzare. Neppure consola il sapere che gli è stato tolto da una donna (altra), la quale è vieppiù colpevole in quanto addobbata coi panni curiali di esperta in scienze umane, che gli cava da sotto mano il detto giocattolo. Tutto ciò è risaputo in teoria e in prassi.
Diciamoci la verità: checché mi si dica o mi si obietti, siamo soli nel nostro oneroso lavoro, ben conoscendo quanta ripercussione nella nostra vita di curatori e di uomini-donne ha la sofferenza dei nostri curandi.
Ciò detto, vorrei aggiungere quello che mi sembra l’unico strumento utile in questi casi, prima di ricorrere eventualmente alle forze dell’ordine.
Lei sa bene che nella metacomunicazione il modulo analogico ha una netta predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione (Watzlawick, Pragmatica della Comunicazione Umana).
Intanto, mai farsi sciaguattare qua e là, offrendo all’invasivo tempo per spiegazioni, chiarimenti o checchessia. Mai! (È accaduto invece, e accade).
Al primo tentativo invasivo di questi guappi dal parlare veloce, provocatorio, volgare e intimidatorio (mettiamo, una telefonata), va impedito con fermo garbo il suo proposito invasivo tramite una punteggiatura comunicazionale precisa (va da sé che questo implica la padronanza della segnaletica dei propri indici paraverbali in uno stato di sovratensione!).
Dunque, senza vocalizzi da soprano, poche pochissime parole le quali, assieme alle inflessioni della voce, del ritmo, della cadenza delle parole stesse, dell’accentuazione tonica e di altre sfumature paralinguistiche, producano un messaggio congruo forte e chiaro, un metamessaggio di una chiarità inedita e di primaria importanza nella comunicazione inconscia per il partner invasivo, il quale prenderà coscienza all’istante che ha sbagliato portone, cioè che, al suo primo tentativo, sentirà un rumore di staffe e di armi sì da accorgersi che è arrivata la cavalleria! Fuor di metafora, che la psicologa è sì donna, ma è lontana le mille miglia dalla tipologia della sua partner-vittima e forse da una madre iperindulgente, al limite dell’autodafé.
Di solito, quando la prima comunicazione trasmette un messaggio univoco, inatteso e preciso, l’esito è quasi istantaneo ed efficace.
Insomma, è fondamentale smandrappare, ripeto, sul nascere il guappo.
Cordiali saluti a Lei e alle colleghe.
Buongiorno dottore,
sono sposata da anni con un uomo che ha comportamenti molto diversi in presenza di altre persone e in famiglia. Visto da fuori, è gentile, misurato e servizievole, brillante, e siamo una bella famiglia, ma lentamente, in particolare a partire dai figli, i comportamenti sono cambiati.
Mio marito ha reazioni “eccessive” che poi afferma di non ricordare mai, oppure le definisce normali reazioni di una persona molto emotiva e coinvolta. Ci sono stati periodi di sfuriate furibonde, nelle quali urla, prende a pugni muri e mobili, talvolta rompe oggetti, oppure mi urla che dovrei farlo ricoverare o chiamare la polizia. Periodi in cui invece mi ripete che andrà dall’avvocato e chiederà la separazione, per non aver più nulla a che fare con me, per non doversi occupare dei figli. Se litighiamo in macchina, può succedere che si metta a guidare in modo eccessivo e che non mi lasci scendere. Magari non sempre, magari solo qualche volta, intervalla periodi di sfuriate in cui comunque gli si rivolga la parola si arrabbia a periodi in cui ha reazioni normali, soprattutto di fronte ad un mio allontanamento.
Non ricorda mai nulla di tutto questo, mi rinfaccia di essere io a non amarlo come dovrei. Io in realtà vorrei la separazione perché questi eccessi emotivi mi hanno logorata, mi hanno fatto stare malissimo per anni. Sbaglio io? Sono reazioni normali? Possibile che non ricordi mai nulla di quello che dice o che fa, o ci sono delle patologie con queste caratteristiche? Quando cerco di allontanarmi, oppure se ci sono altre persone estranee alla famiglia, si comporta in un modo diverso.
Le sarei grata di un suo parere.
Lettera firmata
Sì, ci sono patologie con stati oniroidi e amnesie. Tuttavia, non mi sembra che suo marito rientri in quelle.
Sono anni che lei subisce maltrattamenti psicologici con “sfuriate furibonde” e lei, ormai logora, vorrebbe la separazione. Mi creda, che lui ricordi o finga di non ricordare le sue malefatte, non ha nessuna importanza. Non è questo il punto essenziale.
Lei titubante scrive: “Sbaglio io?”.
Sì, sbaglia lei che, per motivi che io non so, non ha ancora chiesto la separazione.
“Sono reazioni normali?”.
NO, gentile lettrice, pur guardandomi bene dal dispensare diagnosi a persone che non conosco direttamente, mi limito a dirle che le reazioni di suo marito non sono normali per niente. Tutt’altro! Esse generano uno stato di allerta subcontinuo e un’angoscia senza fine.
C’è inoltre qualcosa veramente degno di nota in riferimento a un episodio alla fine del quale suo marito, dopo urla e pugni ai mobili e rottura di oggetti, le grida addosso che dovrebbe farlo ricoverare o chiamare la polizia!
Io credo che suo marito non sappia più come comunicarle di andarsene lei e figli. Urlarle di farlo ricoverare o chiamare la polizia è un po’ come se paradossalmente volesse sotto sotto “difendere” lei dalle sua imprevedibile e incontenibile aggressività. Il sottotesto è: “Fammi ricoverare o chiama la polizia, sennò io stesso non so cosa accadrà. Fammi il favore di andartene!!”. È questo che mi ha colpito.
Come se non bastasse, lui stesso ha proposto più volte di andare da un avvocato per separarsi! Cosa le ha impedito di cogliere all’istante l’occasione? I figli? (Che purtroppo hanno subito e subiscono tutt’ora questo maltrattamento). Qualche forma di dipendenza economica? L’attaccamento emotivo a lui, quando alla fine delle sue sfuriate la tratta bene? O, peggio, lui che, in presenza altrui, si trasforma in una eccellente persona?
Che poi suo marito ridiventi “buono” quando lei si allontana o minaccia di separarsi, è un fatto, questo, assai tipico che abbonda nei casi di maltrattamento alle donne, come già scrissi in altra lettera (Far finta di niente o agire) ed è per questa ragione che la convivenza dura anni prima che la donna lasci l’abusante. Le conclusioni sono due: la prima è quella di proseguire a “convivere” (noti la protesta delle virgolette) con suo marito, purché sempre alla presenza di altre persone, il che è ridicolo, surreale e angosciante; La seconda è correre da un avvocato e finalmente separarsi prima che suo marito sposti la sua furia da mobili e da oggetti alla sua persona fisica! A lei la scelta e, se vorrà, mi scriva ancora per farmi sapere cosa ha deciso per il suo bene e quello dei suoi figli.
Sono una studentessa di sedici anni e mi piacerebbe raccontarle alcuni miei pensieri di fine estate.
Se fossi un eroe acheo e mi chiamassi Ulisse molto probabilmente sarei contento di ritornare a casa, di riabbracciare i miei cari, di riassaporare gli odori della vita di sempre. Se fossi un eroe acheo. Se fossi Ulisse. Se fossi qualcun’altra. Ma non lo sono.
I ritorni non mi sono mai piaciuti, ho sempre percepito nei ritorni malinconia e tristezza.
A me succede ogni qual volta torno da un viaggio in particolare, puntualmente, iniziano a saltare fuori le ansie, paure… le mie radici sono in un minuscolo paese del sud Italia, ma quanto amore ho trovato nel cuore di quelle persone. Proprio l’amore di cui io ho bisogno per navigare in questa bizzarra vita.
Li è il luogo in cui i miei nonni materni si sono conosciuti, hanno incrociato i primi sguardi, si sono innamorati. È il loro posto. E in fondo anche il nostro. Da quell’amore sono nate tre giovani donne, tra cui la mia splendida mamma.
È proprio vero che le cose speciali arrivano dal nulla, senza pensarci troppo, ed è anche vero che la felicità seppur non duratura regala degli attimi indimenticabili. Ed io ho avuto la fortuna di viverli quando, proprio tra le vie di quel paese, ho conosciuto una persona molto importante.
Quel piccolo paese del sud Italia per me è storia, amore, tristezza, felicità e infine è mamma.
È mamma, lo è sempre stato. È mamma perché mi accoglie nel suo ventre (il paese), mi stringe tra le sue braccia (tra la gente) e mi dona tutto l’amore possibile. E le mamme si comportano proprio così. Come spiegare a parole l’immensità di mia madre, la sua bontà d’animo e il suo amore per la vita? Lei è così ed io non mi stanco mai di ripeterle quanto la ami. Sono così contenta che lei lo sappia.
E il viaggio termina. Con qualche amore in più, amicizie, chili (perché no?) e infine consapevolezze. La prima? Quel posto non è casa. Per quanto io lo ami, lo ammiri, quel posto non è casa. O meglio, è un pezzo del mio cuore, io mi sento come se fossi a casa, come se fossi, ma non è casa. E allora, mi chiedo, in quale posto io posso sentirmi a casa?
Sono tanti anni che mi sento smarrita, non riesco a trovare la mia dimora. Ritorno e per me inizia di nuovo la mia agonia. Non voglio screditare Asti, è una città bellissima, ma c’è qualcosa che mi tiene lontano da questa città.
Secondo lei, sarò in grado con il tempo di trovare la mia casa? Di trovare la mia Itaca?
Inoltre, gentile dottor Delfino, avrei il piacere di incontrarla non appena sarà possibile.
Lettera firmata
Innanzitutto, complimenti per la tua scrittura. Alla tua età è un talento che va coltivato.
Riguardo al contenuto, in superficie, c’è come la fusione di due versioni: una “antica” e una attuale.
Quella antica è nelle direzione del prezioso “minuscolo” paese del sud, nel quale il valore dell’esistere e del convivere, i moti caldi dell’esperienza, ivi compreso l’innamoramento, vengono ornati da emozioni e idee molto plastiche. L’intensità dell’immaginazione (che le emozioni sottendono) è alta. Quella attuale è invece tenebrosa, all’insegna del conflitto e del rifiuto.
Ti senti, in certo senso, come un esule, con la differenza che l’esule sa bene qual è la sua patria che ha dovuto o voluto lasciare e che ora vuole ritrovare. Tu no.
Sei immersa in questa mescita di malinconia e nostalgia e sembri una “bambina” un po’ persa, che non sa dove andare e dove “posarsi”.
Questa sensibilità in eccesso che caratterizza i tuoi vissuti deforma un pochino taluni contorni della realtà. È come se tu ti sollevassi di qualche buon metro da terra e percepissi le cose attorno a te in una prospettiva dove alcuni colori abbondano e sono sgargianti per poi sprofondare in un vortice sotterraneo dove i colori ingrigiscono di brutto. Mancano le sfumature che nella vita – checché si dica – hanno grande importanza.
L’accostamento a Ulisse è molto significativo in quanto denota qualcosa che tramite il mito tu dici di te stessa: hai difficoltà a raggiungere Itaca. Tu insisti, tra il simbolico e il reale, a parlare di città. Credimi, gentile lettrice, che l’area geografica c’entra assai poco.
La prima “casa”, la prima “dimora”, insomma, il primo “luogo” sei tu. Luogo che, in verità, tu stai cercando, sebbene al momento ti manca una bussola per orientarti. Salpare per mettersi in viaggio e raggiungere la riva, ossia il tuo Sé autentico (la tua “Itaca”), questo sì. È il tuo compito prioritario. Suppongo tu non sappia ancora dove puntare la prua. Intanto, aizza la vela! E scrivere ti aiuterà, ti sarà utile.
Nelle tue riflessioni introspettive può anche darsi che si apra un po’ il vaso di Pandora, non temere! Vuol dire che sei dentro e che stai navigando per raggiungerti! E se proprio le difficoltà ti parranno eccessive, serviti allora, per un breve tragitto, di un timoniere che conosca le acque perigliose e gli scogli sommersi. Dopodiché, andrai avanti da sola a vele spiegate!
Appena possibile, sicuramente ci incontreremo.
Si ripete spesso che chi ha subito maltrattamenti durante l’infanzia tenderà da adulto a maltrattare a sua volta. Ecco, vorrei chiederle, in che modo si può interrompere quella che mi sembra una situazione inevitabile quasi una condanna.
Grazie per la sua attenzione.
Lettere firmata
Diciamo pure che, tendenzialmente e in linea di massima, noi da adulti siamo portati a fare attivamente ciò che siamo stati costretti a subire passivamente a suo tempo. Questo, sì.
Non è una regola, però. Non è né inevitabile né condanna. Spesso accade esattamente l’opposto. Nonostante il maltrattamento subito da piccoli, alcuni ragazzi crescono e diventano addirittura degli outsider. Ne è testimone la storia di molti uomini e donne, tra artisti, filosofi e scienziati, bistrattati da bambini fino all’adolescenza.
Ce ne sono anche di “comuni mortali”. Prodigiosa trasmutazione!
Come questa trasmutazione sia stata possibile, ossia ravanare negli intricati meccanismi consci, seminconsci e inconsci, interconnessi con l’ambiente e la indefinibile serie di variabili intervenienti nel corso della crescita di codesti ragazzi maltrattati, è per me arduo riuscire a stilarlo in una lettera.
Leggo con interesse le lettere allo psicologo insieme alla mia compagna. Ora mi incuriosisce una sua affermazione contenuta in una risposta, dottore, e cioè quella in cui sostiene che bisogna essere consapevoli del fatto che la sensibilità femminile è diversa da quella maschile.
Quarantenne da poco, le confido che ancora oggi l’universo femminile mi disorienta, mi stupisce, a volte mi appare del tutto incomprensibile. Le chiedo quindi qualche ragguaglio su questa differenza e chissà che io non riesca a migliorare il mio modo di rapportarmi con il “gentil sesso”. La ringrazio.
Lettera firmata
Lei mi domanda, richiamandosi a un mio inciso, ragguagli sulla sensibilità femminile che, come scrissi, è diversa da quella maschile.
Se la sua compagna si commuove alla vista di un film e, poniamo lei no, ecco la dimostrazione che la sua compagna (donna) ha una sensibilità diversa della sua (uomo). E lo è per la “semplice” ragione che la sua compagna si è lasciata andare completamente alla visione del film, non solo sul piano immaginativo, intellettivo, ma – soprattutto – emotivo.
Crudamente detta, la sensibilità è la capacità di un organismo di reagire a uno stimolo.
Troppo crudo e arido vero? Eppure…
Indirizziamo la nostra osservazione sulle reazioni basiche, fisiologiche, endocrine e così via via fino a modelli sociali, psicologici e culturali (culturali in senso antropologico e storico, essendo stata la donna relegata a ruoli marginali fino a non molto tempo fa). Ora, facciamo un respiro. Non possiamo fermarci qua, giacché quel che più conta per accostarci a una vaga comprensione della sensibilità della donna diversa o, se si vuole, più complessa della nostra, basterebbe essere sufficiente soffermarci per un solo minuto al pensiero della donna che è madre.
Durante i lunghi mesi di gravidanza e nel corso di quei momenti unici – il parto – si assemblano sensazioni fisio-psichiche (dolori fisici intensi, stati di incertezza, di attesa, di paura, di angoscia, talvolta incubi, e poi speranza, gioia, felicità) tali che noi uomini, per quanto amorevoli, propensi alla comprensione, sensibili, studiosi e perfino scienziati, per quanto ci si possa sforzare nel tentativo di identificarci con il suo universo, costituito appunto da un range multifattoriale di elementi che vanno dall’organico allo psichico e viceversa, noi uomini – ripeto – potremmo al più immaginare o intuire quel che accade a una donna in quella sua incondivisibile porzione di spazio-tempo che resta, per questo, solo sua. Non potremo mai entrarvici, non potremo mai sentirlo!
E pensi che questo avviene da ben tre milioni di anni! E’ proprio questa inaccessibilità da parte nostra a entrare nel flusso torrentizio di sensazioni, immaginazioni, emozioni e sentimenti cui è vittima e al contempo artefice sacro la donna, che ci impone, riguardo la sensibilità, la consapevolezza della differenza.
Infine, lei mi chiede come migliorare il rapporto col “gentil sesso”. Qualche ragguaglio gliel’ho dato. Ora però, se mi permette, le do un consiglio: non pensi più alla donna come oggetto-sesso e come oggetto-gentile… La donna è altro!
Gentile dottore, ho 50 anni, un marito, due figlie maggiorenni che studiano e con noi vive anche mia suocera. La nostra casa pare un pollaio: l’unico “gallo”, mio marito.
In una situazione del genere, noi donne dovremmo, non dico proprio prevaricare, ma almeno ogni tanto avere la meglio sul “gallo”. Ciò non accade anche se siamo coalizzate. Mio marito ha una grande attitudine al comando, ha sempre ragione e non si fida di nessuno.
Ha una piccola ditta artigianale e controlla e ricontrolla il lavoro dei suoi dipendenti: allo stesso modo gestisce la nostra famiglia come se fossimo la sua ditta.
Durante la segregazione a causa della pandemia, mio marito era l’unico a essere felicissimo. Non gli pareva vero di avere tutte le sue donne tappate in casa, sotto stretto controllo. Solo lui usciva a fare la spesa, “per proteggerci”, diceva.
Quando le nostre figlie escono, lui le segue di nascosto. Già prima del Covid eravamo stressate da questa situazione, ma ora siamo veramente disperate.
Aiuto! Grazie.
Lettera firmata.
Se il “gallo” – fosse pure uno shamo (gallo giapponese da combattimento) – seguitasse, tonitruante, a emettere il suo becero verso, ma le galline smettessero all’istante di fare le uova per un po’ (ossia, fuor di metafora, i soliti stili, le solite condotte verbali e paraverbali, i soliti battibecchi), che cosa accadrebbe? Mi guardo bene dal suggerire la pretesa di richiamare, magari in modo garbato, la di lui attenzione sulla vostra afflizione e di farlo ragionare, visto che non sente ragioni (“ha sempre ragione lui”, lei dice). Non solo, il vostro messaggio potrebbe non essere captato o giungere attutito, non superando dunque la soglia della sua “sordità”. Potrebbe anche udirlo, ma non “sentirlo”.
Non credo neppure sia risolutivo sottrargli la sua materia ispettiva, il suo potere supervisionale, con acconce parole e ragionamenti psicologizzanti. Sono sicuro che avete provato di tutto.
Allora, mi permetta di ampliare la metafora di cui sopra. Per sgallare il gallo con le sue tronfie e oppressive schicchiriate non c’è che un modo, a parer mio: adottare la magia del paradosso, una strategia atta a rompere la rigidità di questo schema pluriennale tra voi donne e lui “patriarca”. Non state più in attesa frustrante di un suo ennesimo controllo mortificante. Non più. Al contrario, anziché combatterlo, il suo modo d’esser compulsivo e ipercritico acutizzatelo fino allo stremo. Moltiplicate in lui, tutte voi quattro, l’esasperazione al controllo, deliberatamente chiedetegli se va bene questo o quello, se quella condotta o azione è giusta, di meglio supervisionare, con l’occhio d’aquila che lo contraddistingue, quelle situazioni oggetto del suo controllo compulsivo. Provate e insistete, asfissiatelo con questo trucco strategico per almeno una settimana.
Lei capisce che il fondo strutturale di questo nuovo movimento è: non sei più tu che ci controlli, siamo NOI che ti ordiniamo di controllarci e criticarci! È assai probabile che il Grande Fratello Orwelliano, dopo un po’, assillato dalle vostre incessanti richieste di conferme, getterà la spugna, giacché gli avete sottratto l’elemento essenziale per le sue smanie: gli avete soppresso a tal riguardo la volontà, la spinta motivazionale a sentirsi “caporeparto” della ditta-famiglia. Le sue fisime di controllo e critiche esasperate non sono più spontanee, volontarie, non sono più sue, sono volute da voi!
È solo un tentativo. Provate.
Suggerito ciò, vorrei tuttavia destare la sua attenzione su di una questione. Al di là del fatto che ciascuna di voi nei confronti di suo marito ha un ruolo diverso (moglie, figlia, madre) vi siete tutte ben “coalizzate”, ritenendo di aver localizzato il problema: le condotte disadattive del marito sono la “causa” del vostro mal vivere. Le confido, però in un orecchio, che il marito è solo portatore di un sintomo: la causa risiede nella disfunzionalità delle vostre rispettive transazioni, che andrebbero chiarite e approfondite, in quanto a monte, non a valle.
Chiarito ciò, nel mentre, se vorrà, mi tenga informato su come è andata.
Sono cresciuta con mia cugina che ora ha 16 anni. E’ proprio mascolina. Niente gonne, trucco, collane e qualche tempo fa ha detto ai genitori che i ragazzi non le interessano proprio. Scenate a non finire! I miei zii mi hanno incaricata di controllarla il più possibile, leggere i suoi sms, e quando usciamo assieme devo poi riferire come si comporta. Proibito anche il kick boxing che lei ama tantissimo.
Se obbedisco ai miei zii mia cugina finirà con l’odiarmi, se non faccio quello che si aspettano da me, mi sento in colpa. Non so più che fare. Mi può aiutare? Conto su di lei e la ringrazio.
Lettera firmata
Obbedire ai suoi zii evitando così il senso di colpa o farsi “odiare” non appena sua cugina capirà che lei ha controllato e spifferato i suoi messaggi e le sue condotte agli zii controllori? Questo, il suo dilemma. Lei mi scrive perché deve aver ben compreso che sono brutte entrambi le azioni: spiare e riferire.
Trovo assai discutibile la pretesa dei suoi zii di proporle un incarico come questo, intricato e, psicologicamente, insostenibile. Gli zii sono preoccupati per la loro figlia nell’ambito di attuali o future scelte sentimentali, dato che non vuol saperne di “femminilizzarsi”: da qui “scenate a non finire”.
Lei non sa più che fare e mi chiede aiuto.
Allora, lei potrebbe opporsi con coraggio e a chiare lettere al diktat dei suoi zii, spiegando loro che l’incarico non solo è di per sé oneroso ma conflittuale, giacché lei non vuole sentirsi colpevole di “spionaggio”, tradendo la fiducia di sua cugina.
Certo, rifiutando l’incarico è un po’ come se lei confessasse, in modo non verbale, che accetta (o semplicemente non vuole entrare nel merito) le condotte e le scelte di sua cugina. Ovvio, si aspetti i regolari disappunti degli zii.
Occorre sempre avere il coraggio delle proprie azioni, perché – provi a meditare su questo – se lei, al momento, accetta con passiva acquiescenza l’incarico (quali che siano poi le conseguenze) non creda illusoriamente di aver completato l’opera.
Sua cugina ha solo sedici anni. Per questo, è molto probabile che i suoi zii seguiteranno a servirsi di lei come termometro di controllo a tempo indeterminato! Che fatica titanica!
E questo spiare-riferire finirà col diventare il suo ruolo… Sappia che i ruoli, una volta fissati, sono duri a morire. Glielo sconsiglio.
Buongiorno dottor Delfino, ho 16 anni e mi sento diversa dalle mie coetanee, quasi un’extraterrestre. Dico questo soprattutto in relazione all’amore e ai rapporti sessuali. Per me un rapporto sessuale può esistere solo se esiste l’amore. Ma le mie amiche mi dicono che sono “all’antica” e che ai ragazzi interessa che una ragazza sia disponibile anche a farsi filmare mentre si hanno dei rapporti sessuali. Diverse mie coetanee lo fanno, non solo ne vanno fiere ma fanno circolare i video fra gli amici. Io sono sconvolta da questo loro comportamento che mi ferisce nel profondo perché a mio avviso riduce l’amore a un puro atto esibizionistico. Lei cosa ne pensa di tutto ciò? La ringrazio e la saluto molto rispettosamente.
Lettera firmata
Tu scrivi con una maturità interiore superiore a una sedicenne “standard” e le tue riflessioni sono di grande attualità.
Dal ’68 in avanti c’è stata una grossa rivoluzione politica, morale e culturale che si è ripercossa in tutti gli ambiti sociali.
L’ambito sessuale è stato uno di quelli più sentiti. E a buon diritto, poiché ha spazzato via una montagna di pregiudizi e condizionamenti, nonché di sofferenze derivanti da essi, soprattutto per le donne.
Col tempo però la cultura del piacere, e del piacere immediato, ha preso il sopravvento assieme a tre altre “culture” coeve: dell’immagine, della velocità e dell’oltranza, cioè dell’estremo.
La liberazione del sesso è un fatto e fu atto di evoluzione civile, laica, ma la sua oltranza, l’esibizionismo e la sua mercificazione ha poi prodotto su una larga fascia di adolescenti una reazione per così dire mimetica, ossia di emulazione (come nelle sue “fiere compagne quattordicenni”, ma ce ne sono anche di dodicenni!) dei modelli che hanno avuto sotto gli occhi da tempo, attraverso televisione, pornografia e social.
È un “gioco” mimetico veicolato con coloriture espressionistiche, cioè con condotte smargiasse e linguaggio grottesco, sbracato.
Scollati dalla realtà, immersi in un universo di fiction (imitazione delle dive e divi televisivi, abbeverarsi ai web), il gioco mimetico di cui dicevo induce a pensare che questa schiera di adolescenti sono saliti su di un palcoscenico e diventati un po’ attori e attrici, protagonisti, loro malgrado, di questa gargantuesca fiction collettiva. Aggiungo una riflessione fatta da Walter Siti nel suo ultimo libro “Resistere non serve a niente”: “Nulla ormai è meno intimo del sesso, la nudità pubblica e la spontaneità è equiparata a una posa” e ancora “il corpo non è più un bene nascosto da difendere (…) ma un prodotto ad alto valore estetico da scambiare prima che deperisca, e di cui è incerta la relazione con l’Io”.
E concludo. Sigmund Freud scoprì che convivono nella psiche umana due principi o istinti, che chiamò Eros (principio del piacere) e Tanatos (principio di morte).
Il concetto difficile, non a caso, da comprendere è che i due principi “vivono” assieme.
Ciò vuol dire che se all’erotismo si sottraggono i rituali, il mistero, la forma e la discrezione, i fantasmi di carattere distruttivo e mortifero si catapultano nella vita sessuale ed è l’uragano: potrebbero cioè provocare violenze incredibili.
Il rischio per questi adolescenti è quello che, a soli 18 anni, prendano coscienza di avere una serie di disfunzioni sessuali e un Io, cioè una personalità, che resta appesa a ben poca cosa.
Gentile dottore, negli ultimi tempi, di tanto in tanto, quando mi sento molto sola, sento la presenza di Gesù, a volte addirittura vedo un lembo della sua tunica e ne sento il frusciare.
Ho parlato con un sacerdote al quale ho anche confidato che non sono dedita a cose sacre e non frequento chiese.
Lui mi ha detto che Dio si sta facendo sentire, forse allo scopo che la mia vita si elevi nella direzione di Cristo. Alla fine, dopo aver compreso il mio sincero scetticismo, mi ha consigliato di sentire il parere di uno psicologo. Non so cosa pensare…Sono malata? Deliro? Lo chiedo a lei dottore nella speranza che mi possa aiutare.
Attendo impaziente una sua risposta. Grazie.
Lettera firmata
Il bisogno del divino in una cultura così spesso dedita alla reificazione, ossia alla cosificazione dell’essere, è assai diffuso e invocato. Pullulano infatti sette le più disparate il cui scopo, quando purtroppo non è di solo lucro e raggiro, è quello di percepire un altrove, qualcosa cioè che non sia pedissequamente terrestre e dunque pragmatico.
Al di là di qualsiasi credenza, è un fatto che lei vede (e se ne preoccupa) un lembo della tunica di Gesù e ne ode il fruscio. Il sacerdote, dopo averla ascoltata attentamente, le ha proposto il parere di uno psicologo. Da qui lei ha cominciato a meditare e le è venuto il dubbio se considerarsi malata, in quanto “delira”.
È assai probabile che, vivendo in una cultura cristiana e assorbendola a qualche livello, pur non essendo donna di chiesa, le influenze della dottrina udita da bambina e da adolescente le hanno promosso ideoplasticamente la presenza di Gesù con il fruscio della sua tunica. Questo, tuttavia, le accade nei momenti in cui lei è completamente persa in un vortice di solitudine insopportabile.
Il motivo delle sue moderate “visioni” è solo questo.
Le suggerisco un’opportunità. Quando si sente svilita e troppo sola, faccia uno sforzo, scenda in strada, vada al bar, incontri gente, provi a intrecciare qualche amicizia. Se questo accadrà, le visioni si ridurranno sino a scomparire.
Non creda affatto di delirare. Il delirio è altra cosa. Lei ha solo bisogno di sollevarsi da qualche elemento depressogeno sì da conquistare nuove amicizie e di godere del piacere di stare in mezzo agli altri, ossia nel mondo.
Sospetto che lei non abbia granché voglia di attuare quello che le ho suggerito. L’avrebbe già fatto da sola. Se però non lo fa, è possibile che le visioni seguiteranno e lei se ne preoccuperà. Allora le domando: meglio le visioni a causa dello sconforto e della solitudine o buttarsi nella mischia e vedere cosa succede?
Sono vedova da dieci e vivo sola, 73 anni. Ho tre figli.
La mia “rogna” è mio figlio minore (35 anni), sposato, senza figli, che già da diversi anni ha smesso di parlarmi, è molto arrabbiato con me e non so perché!
Io ci provo, ma lui rifiuta categoricamente il dialogo.
Quando ci ritroviamo la domenica a pranzo, mi saluta a malapena, mai un abbraccio, un bacio, un “Come stai mamma?”.
Nemmeno gli altri due figli conoscono le ragioni di questo comportamento. Questo mi addolora in modo devastante. Può una madre elemosinare amore da un figlio?
Amo i miei tre figli. Perché solo lui non lo comprende?
Grazie.
Lettere firmata.
Vorrei innanzitutto precisare che la parola dialogo, ormai abusata da anni, non è quello che la maggioranza delle persone pensa che sia.
Di fatto, lei dice: “Io ci provo, ma lui rifiuta categoricamente il dialogo”. Lei, come molti, confonde il dialogare con il conversare! Di conseguenza, se suo figlio – poniamo – pronunciasse un centinaio di parole o una quarantina di frasi, lei avrebbe l’errata percezione che suo figlio stia “dialogando” (noti la protesta delle virgolette).
Il dialogo è altro. Il dialogo è confronto!
Le sembrerà paradossale: suo figlio può non “dialogare” o semplicemente conversare, e tuttavia non può, in assoluto, non comunicare! Che cosa dunque sta da tempo, per qualche suo misconosciuto motivo, comunicando? Sta purtroppo comunicandole che non vuole alcun confronto con lei.
Per una mamma, si sa, è molto penoso. Lei dice anche: “Mio figlio è molto arrabbiato con me e non so perché”. Il fatto che l’abbia immaginato, può anche darsi che sia vero, sebbene non ne conosca la ragione. Che poi, nemmeno gli altri due suoi figli conoscano le ragioni di questo comportamento del loro fratello, mi fa pensare che questo figlio resta “mutacico” anche con loro. Ma allora che partito prendono i suoi due figli appetto alla condotta di chiusura nei suoi confronti del loro fratello?
Lei mi domanda: “Può una madre elemosinare amore da un figlio?”. Le rispondo subito no, che non può. L’amore non si può elemosinare.
Se X elemosina un po’ d’amore da Y e questi glielo concede (per compiacenza, per pena o altro), ciò vuol dire che Y sta facendo l’elemosina a X. Vuole che le metta in mano un euro d’amore? No, lei non vuole questo. Del resto, a ben vedere, a mio parere non è in discussione l’amore, ma il comportamento, forse dovuto a una rabbia, come lei sospetta, pregressa. Supponendo che sia così, la rabbia nasce dal dolore e questo a sua volta dall’amore. E’ anche vero che la rabbia può tramutarsi col tempo in rancore e se non ci si confronta questi sentimenti si cronicizzano.
Provi lei ad abbracciarlo. Provi lei a chiedergli come sta. Se nemmeno questo produce esiti, non gli comunichi più questo suo affanno, questa sua dolorosa frustrazione. Voglio dire, pur seguitando a trattarlo con garbo, resti un po’ “mutacica” anche lei.
E’ solo una strategia, lo so.
Può darsi però che lo schema comportamentale di suo figlio muti. Chissà! Magari si chiederà “Come mai?”, “Perché non fa come al solito?”, “Come mai non mendica più?”. E questo ha già creato spazio in lui per una riflessione.
Buongiorno dottore, sono una giovane ragazza che ha sofferto per circa un anno di un disturbo alimentare, anoressia in particolare.
Ora sono dal punto di vista fisico guarita, ho raggiunto il normopeso e a livello psicologico penso di aver fatto, e star facendo ogni giorno, grandi passi avanti e anche se non mi ritengo guarita penso di essere sulla buona strada.
Tuttavia sono ancora bloccata sotto alcuni aspetti ed è per questo che mi rivolgo a lei.
Non mi spaventa mangiare una pizza o un bel piatto di pasta anche ben condito, ma ciò che ancora mi intimorisce è non sapere quanto ho nel piatto. Mi spiego meglio, non mi spaventa avere 120 grammi di pasta nel piatto, ma il fatto di non sapere quanti ce ne siano se qualcun altro lo prepara per me. Ha qualche consiglio per me?
La ringrazio per l’attenzione, buona giornata.
Lettera firmata
“Il blocco” che lei descrive è ascrivibile a uno dei reliquati cruciali della anoressia (dalla quale sta guarendo grazie alla ferma e apprezzabile volontà di uscirne): quello di sapere in modo preciso, poiché fortemente ansiogeno, quanto ha nel piatto. Saperlo la rassicura.
Nondimeno, quando lei spiega meglio il suo timore, afferma: “Non mi spaventa avere 120 grammi di pasta nel piatto, ma il fatto di non sapere quanti ce ne siano se qualcun altro lo prepara per me”.
Ora vorrei destare la sua attenzione su questo. Se non la spaventa un piatto che contiene 120 grammi di pasta, mi è un po’ difficile immaginare che chi le prepara suddetto piatto gliene possa aggiungere di più, per la semplice ragione che la pasta deborderebbe dagli orli del piatto.
Dunque, il consiglio che le dò è limitarsi a osservare che la pasta offertale non debordi dal piatto, giacché in tal caso di sicuro pesa più di 120 grammi, così come è altrettanto sicuro che chi gliela porge non ha il senso della misura.
Con l’occasione, le faccio tanti auguri per la battaglia che sta facendo.
Gentile dottore, sono sempre stata legata ai miei nonni, da cui trascorrevo i pomeriggi e tutta l’estate, ricevendo attenzioni e coccole, soprattutto da mia nonna che preparava i miei piatti preferiti e che realizzava con le sue mani maglioni di lana per me.
Tra un mese mia nonna compirà 99 anni e ha trascorso i suoi ultimi vent’anni in casa di riposo. Con la sua pensione, non è mai riuscita a far fronte da sola alla retta, sempre integrata dai mei genitori e zii. Quando la casa di riposo in cui si trovava in precedenza ha aumentato la retta, mia nonna è stata spostata in un’altra. Si è adattata a questo cambiamento senza ripercussioni evidenti sul suo stato di salute; è ancora lucida e orientata, sente e vede bene, si muove con un girello. Ha stabilito un buon rapporto con le assistenti e ripete spesso: “Sono molto felice perché tutti qui mi vogliono bene”.
Un mese fa l’amministrazione della casa di riposo ha aumentato in modo importante la retta che i mei genitori e zii non si possono permettere. Come nipote, cosa posso fare per mia nonna? Portarla a casa mia, un piccolo bilocale in città? Cercare una badante ad ore che possa occuparsene quando io sono al lavoro? I miei genitori e zii sembrano orientati a cercare un’altra casa di riposo, per non spendere tutti i loro risparmi. Lei che cosa mi consiglia? Grazie!
Lettera firmata
La nonna di allora, quella delle coccole, quella che le preparava i suoi piatti preferiti, quella che realizzava maglioni di lana per lei, non è la nonna di oggi, così come lei non è più la bambina di allora.
“Sono molto felice perché qui tutti mi vogliono bene”.
È sua nonna che a 99 anni dichiara a tutto tondo questo suo eccellente stato d’animo.
Da una casa di cura dove tutti le vogliono bene, lei immagina di portarla nel suo bilocale, senza più persone amiche attorno con le quali è abituata a vivere. Persone alle quali quasi sicuramente ha raccontato i suoi segreti e i suoi sogni, forse tutti assieme si sono bisbigliate perfino pettegolezzi e hanno riso. E lei vuole portarla via da questo piccolo paradiso…una badante che si occupi della nonna, quando lei è al lavoro?
A 99 anni questo “trasloco”, se pure dettato dall’affetto, dalla riconoscenza e dunque, dalle migliori intenzioni, potrebbe divenire una incauta prigionia che richiederebbe alla nonna un assai improbabile adattamento. No, non glielo consiglio.
Al contrario, consiglierei lei genitori e zii (organizzandosi al meglio con qualche sacrificio in più riguardo la retta) di lasciarla proseguire questo raro stato di serenità e permetterle di superare felicemente i 100 anni in quell’habitat che la colma di tutto ciò di cui ha bisogno.
Salve, ho 17 anni e la domanda che vorrei porle riguarda i sogni, l’ultimo argomento di psicologia che abbiamo trattato in classe, anche se a distanza. Abbiamo appreso che noi sogniamo dopo 90 minuti dal nostro addormentamento, però molte volte mi capita di addormentarmi anche solo per 30/40 minuti e sognare. E’ definibile lo stesso sogno? Come mai accade se abbiamo studiato che in realtà si sogna dopo 90 minuti?
Grazie mille per la sua disponibilità.
Lettera firmata
Hai fatto bene a voler chiarire questa nozione riguardante i sogni, giacché è anche vero che possiamo sognare durante un breve sonno diurno. In tal caso, non c’è da attendere i consueti 90 minuti (come hai giustamente appreso) come nel sonno notturno, durante i quali si svolgono vari fasi o cicli fisiologici (come pure un grosso lavorio di neurotrasmettitori di importanti sostanze celebrali) fino al raggiungimento del sonno detto paradosso (che è il sogno).
A tal riguardo, va detto che noi sogniamo più o meno 90 minuti per notte, e talvolta anche di più, fino ai 120. Ovvio, non di seguito, ma dilazionati nel corso della notte.
Non occorre qui accennare alle onde Teta o alle onde Delta (sono nozioni elettroencefalografiche), basti osservare un dormiente…quando questi inizia a muovere rapidamente i globi oculari in tutte le direzioni, questo è segno che sta sognando. Si chiama fase R.E.M. (rapid eye movement: movimento rapido degli occhi).
Fino a 41 anni ho vissuto con i genitori vuoi per paura di “tagliare il cordone ombelicale”, vuoi perché uscivo con “le ossa rotte” da una storia di 12 anni con un ragazzo da cui sono stata tradita, ma non ho mai voluto dargli la soddisfazione di fargli vedere quanto male mi avesse fatto e quanto lo disprezzassi per questo.
Dopo anni conosco un ragazzo, lo guardo, non mi piace neanche un po’ ma si dimostra una persona brillante e dopo un annetto mi chiede di andare a convivere con lui. Tutto andava bene finché facevo cosa voleva lui e soprattutto se avevamo rapporti sessuali, quando lo respingevo diventava nervoso. Mi chiede di sposarlo, nel frattempo mia mamma si ammala di Sla e mia sorella di leucemia, io non ho mai avuto come obbiettivo il matrimonio ma l’ho fatto per regalare gioia ai miei genitori.
Con la pandemia tra divano e letto e cellulare in mano h 24 sui social, mio marito arriva a bere una bottiglia al giorno di rhum.
Tutto precipita durante una banale discussione, mi dice che si è stufato e di tornarmene dai miei. Io riconosco di averlo trascurato soprattutto dal punto di vista sessuale, non avendo avuto più rapporti, ma la mia testa era un turbinio di paure, ansie, responsabilità.
Un mese di silenzio poi gli vado a parlare e lui mi dice “MI SONO SPENTO. Tra me e te non c’è passione. Farò le pratiche per la separazione”… separazione basata su cosa??? Lui si è stufato del giochino e lo butta.
Anche questa a mio parere è violenza perché ovviamente inconsciamente ma neanche troppo ti fa sentire in colpa e non è giusto perché ho anteposto la vita dei miei familiari alla mia ma loro avevano bisogno di me.
Scusate per le parole magari scritte a sproposito ma sono dettate dal cuore.
Lettera firmata
Posso ben immaginare il suo stato psicologico tra la mamma con la Sla e la sorella con la leucemia. Mi è piuttosto difficile invece immaginare suo marito che, anziché starle più vicino di prima e sostenerla in frangenti così afflittivi e angosciosi, le rimprovera… che lo ha trascurato.
A tal proposito, mi sorprende un po’ quando lei afferma di riconoscere di averlo trascurato, quantunque immersa in un maremoto di ansie e di responsabilità.
Allora, la domanda è: avrebbe davvero potuto, emotivamente e razionalmente, trascurare sua madre con la Sla e sua sorella con la leucemia e al contempo tenere a bada il marito che beve (una bottiglia di Rum al giorno è da etilisti), pronto all’erotismo di cui le fa una colpa, assolutamente a sproposito, date le ferite sanguinolenti che s’annidano nel suo cuore di figlia e di sorella?
Qualcosa di sostanziale in lui è cambiato e, di fatto, alla fin fine le dice: torna dai tuoi!
Veniamo più direttamente a lei. Le anticipo che sarò un po’ provocatorio al solo scopo di produrre in lei un maggior movimento introspettivo. In riferimento alla sua prima relazione sentimentale, lei dice: (…) “non ho mai voluto dargli la soddisfazione di fargli vedere quanto male mi avesse fatto…”.
Non ha voluto dare a lui la soddisfazione!? Non a se stessa? Chiarisco. Intanto la parola è impropria, sebbene assai significativa. È come se lei dicesse: “Tu mi fai del male… bene, io non ti dico niente, TIE’(non ti do soddisfazione!)”.
Se si sta male per le malefatte del partner e non gli si svela il dolore, mi dice come fa il partner a capire quanto male le ha fatto?
Vediamo la seconda vicenda sentimentale.
“Lo guardo, non mi piace neanche un po’”. E tuttavia ci va a convivere, perché dopo un po’ ha scorto una persona brillante, etc.
E ancora: “Tutto andava bene finché facevo cosa voleva lui e soprattutto se avevamo rapporti sessuali altrimenti diventava nervoso”. Passa un altro anno e lo sposa. O, meglio, si lascia sposare nel mentre la mamma si ammala e lei confessa che non ha mai avuto come obiettivo il matrimonio, “ma lo fa per regalare gioia ai suoi genitori”! Capisco, è bello dare gioia ai genitori, ma è quantomeno discutibile voler dar loro gioia fino a quel punto, ossia sposare un uomo che, fin dall’inizio non le piaceva e che, anche se innamorata tardivamente, lei comunque ha avuto tutto il tempo per subodorarne la tipologia.
E alla fine, suo marito confessa una verità assai denotativa dei suoi vissuti e della sua spinta motivazionale nella relazione con lei: “MI SENTO SPENTO. Tra me e te non c’è più passione..”. Questa la triste verità di suo marito. E infatti la cosiddetta passione, dal punto di vista della durata secondo ampi studi sociologici, va dai due mesi ai due anni. Non di più. Poi si può trasformare in affetto, in amicizia oppure finisce e basta.
Mettendo assieme alcuni elementi descrittimi della sua vita, azzarderei un’ipotesi e cioè che, per ragioni ignote in quanto allogano in qualche meandro della cantina del suo Io profondo, lei è alla costante ricerca dell’uomo da respingere o da cui farsi respingere. È un copione questo che, senza esserne consapevoli, perseguono non poche donne.
L’amare non si identifica in protratte tarantelle copulative. Amare significa accogliere i limiti e le ansie dell’altro. Se così non è, non è amore. Magari passione, infatuazione, innamoramento, ma non amore.
Il pellicano femmina australiano – così la leggenda – quando non c’è più cibo per i suoi piccoli, sa cosa fa? Fa un po’ come lei: si stende nel nido a pancia in su e aspetta che i suoi affamati pellicanini la sventrino, così questi sopravvivono e lei muore. Non si metta più giù a farsi “sventrare”. Le dirò inoltre che non è così certo che lei abbia tagliato il cordone ombelicale con i suoi genitori. E la gioia, prima di regalarla ai suoi o a chicchessia, cominci a regalarla a se stessa, e meritatamente, dopo le “sventrature” dolorose e umilianti subite. Di sicuro i suoi genitori non possono aver provato gioia a vedere la figlia tornata a casa, disvoluta dal marito.
Non so se le sono stato un po’ utile. Io mi auguro di sì.
Ho contratto il virus durante la mia professione di operatrice socio-sanitaria.
Quello che non mi perdono è il fatto di aver contagiato mio figlio da poco maggiorenne. Lui dice di capirmi e che non ho nessuna colpa, è sincero eppure io mi sento colpevole. A volte sembra lui il genitore e io la figlia. Mi rassicura e mi consiglia e io mi accorgo di affidarmi a lui, anche se dovrei prendere in mano la situazione io. Il mio ex marito da anni non partecipa alla nostra vita.
Che cosa ne pensa lei dottore, il tutto è dovuto alla condizione in cui ci ha messi la malattia? Riusciremo col tempo a recuperare i nostri rispettivi ruoli di madre e di figlio? Conto sul suo parere…
Lettera firmata
Innanzitutto i miei auguri a lei e a suo figlio che ha scoperto essere un ragazzo veramente speciale (conforta la mamma, la decolpevolizza, la rassicura, mostrando così, un po’ forzatamente perché indotto, la propria adultità). Non di meno quello che è accaduto e che lei reputa un problema è una chiara inversione di ruoli.
Ora se questa inversione di ruoli cessa in breve tempo, bene.
Se invece essa si protrae nel tempo, può generalizzarsi a più vasto raggio ed elicitare in suo figlio “il dovere coatto” di occuparsi, preoccuparsi, lenire ogni piccolo dolore o ansia di lei mamma sì da sostituirsi, inconsapevolmente, a figura paterna che, a quanto ho letto, manca così che suo figlio se ne è fatto carico, anche perché lei gli ha mostrato la sua vulnerabilità. E questo non va bene perché col tempo può generare in suo figlio grossi elementi di ansia.
Mi creda non è stata la malattia a provocare quello che sembra un improvviso scambio di ruoli, non è stata essa la causa, bensì l’occasione che ha messo a dura prova qualcosa di effettivamente profondo che a lei manca.
Lei mi chiede con legittima apprensione: “Riusciremo col tempo a recuperare i nostri rispettivi ruoli?”. Non entrambi, ma solo lei, mamma, può e deve correggere la relazione (dunque, riuscirò, non riusciremo).
Suo figlio scioglierà questo scambio di ruoli se, e solo se, lei lo indurrà a cambiare, prendendosi il ruolo che le è proprio.
Il genere di colpa che mi ha descritto lo si può confidare al principio e una volta sola, con sincerità e calore, ma soprattutto con la dovuta sobrietà. Reiterato invece, non solo costringe, senza volerlo, suo figlio a una inversione di ruoli, ma, crescendo il ragazzo può tendere a trasferire in una eventuale partner futura l’identico schema attuale (con tutto lo sperpero di energia che questo comporta) oppure, al contrario, non fosse per difendersene, potrebbe, senza averne coscienza, essere portato a ridurre di molto, nella relazione con la partner, la sua empatia e il suo sentimento così da apparire addirittura poco sensibile.
Le darei un suggerimento: una volta espresso il proprio senso di colpa, acquietarsi e accettare l’idea che l’accanita ricerca del perdono è sentimento che va sofferto in silenzio e, dunque, mai ostenderlo al figlio, sì da conservare e tener fermo lei il ruolo di mamma e il figlio quello che gli compete.
Rinnovo gli auguri per una definitiva ripresa dalla convalescenza.
Aggiungo un augurio particolare per il recupero stabile del suo ruolo di mamma così da permettere a suo figlio l’altrettale recupero del suo.
Visto che in questi giorni c’è stato un’alternanza di giorni di sole e giorni di pioggia volevo chiedere a lei, come mai il tempo atmosferico, influisce così tanto sugli stati d’animo delle persone?
Pongo questa domanda perché in questi giorni mi è capitato di sentirmi in uno stato di estrema gioia e poi il giorno dopo in uno stato d’animo totalmente diverso; ho notato questo cambiamento soprattutto nei giorni di pioggia o nei giorni in cui il sole era coperto dalle nuvole.
Lettera firmata
Nei manuali di patologia medica sono stati molto studiati vari fenomeni che vanno sotto il nome di meteorosensibilità.
Pensi, in meteorologia, a esplosioni di criminalità collettiva e di isterismo di massa, coincidenti con improvvise variazioni barometriche e meteorologiche. Difatti, grande influenza hanno sulle nostre condizioni di salute e sul nostro comportamento, a molti livelli, i misteri del campo magnetico terrestre, i raggi cosmici, i raggi gamma, ma soprattutto le cosiddette macchie solari, le fasi lunari e i venti. Le sindromi causate da meteorosensibilità sono indotte da forti differenze di potenziale tra la terra e l’atmosfera e quindi dalla particolare mobilità degli ioni atmosferici (D. Campanacci, Manuale di Patologia Medica, Vol. I p. 1116).
Detto ciò per pura conoscenza, a me pare che nel suo caso il tutto si riduca a una gioia che si rabbuia sotto la pioggia e a un sole imbrigliato tra le nubi. Per questo, ovvio, il suo cambiamento di umore non può essere riconducibile a meteorosensibilità, ma piuttosto a qualcosa che non le è del tutto chiaro e che andrebbe approfondito. Voglio dire che magari la pioggia (che a molti piace!) e il sole rannuvolato potrebbero costituire “pretesti reali” che la fanno contattare con, poniamo, un po’ di tristezza che è già dentro di lei da qualche parte, sicché un sole che non brilla per via delle nuvole e una pioggia che ingrigisce il paesaggio non sono la causa dei suoi umori ma, ripeto, pretestualità reali che mobilitano e potenziano qualcosa che, in nuce, c’è già.
In tutti noi giacciono, spesso silenti, aree di tristezza, che prendono corpo quando ci troviamo difronte a eventi che vanno a toccare appunto quelle aree che da silenti ora sentiamo.
Le auguro di incontrare, giusto nel bel mezzo di una pioggia scrosciante, un volto luminoso che le sorrida e che desideri amicizia.
È probabile che da quel momento in avanti la pioggia assumerà altre coloriture.
Buongiorno, sono una studentessa di 18 anni.
La contatto poiché vorrei soffermarmi su una questione che mi incuriosisce.
Molto spesso la paura è ciò che frena maggiormente gli individui, molti progetti o idee vengono annullate per la paura del fallimento o delle possibili conseguenze.
La paura dell’abbandono o della morte.
Il rischio di perdere una persona cara è in grado di far tramutare il comportamento di un individuo pur di raggiungere il proprio scopo.
Un ricordo può essere l’artefice della paura.
Non è possibile cancellarla o semplicemente fare finta che essa non esista poiché molte delle nostre azioni o scelte sono dettate da essa.
La mia curiosità è se sia possibile tramutare la paura in un qualcosa di positivo scambiando i ruoli.
La paura, che quasi ci fa da padrona, può essere sfruttata a nostro vantaggio?
Sì, è possibile tramutare la paura in qualcosa di positivo purché non si abbia “paura” di scoprire quali getti d’angoscia uno sposti, sì che questi diventino alibi (cioè paure).
Le ricordo solo che lo spostamento, in psicoanalisi, è un meccanismo inconscio di difesa dell’Io. Inconscio perché lei non conosce cosa sposta, né il fatto in sé, e cioè che lo sta spostando. In altre parole, sì, è possibile se e solo se si è disposti a comprenderne l’origine (cosiddetta psicogenesi). Tenga presente anche che le paure sono stratagemmi per scongiurare l’angoscia che sta sotto.
Altra domanda: la paura ci fa quasi da padrona, può essere sfruttata a nostro vantaggio?
Detto così, no, proprio no! La paura ha effetti paralizzanti, sia psicologici che fisiologici. Un vago vantaggio comunque c’è quasi sempre, ma è vantaggio nevrotico e si chiama, in gergo tecnico, soteria, il bisogno cioè di essere rassicurati, consolati o illusoriamente “salvati”. Come vede è ben poca cosa, ma succede spesso, finché le paure dell’amato, poniamo, non oltrepassino le forze di chi rassicura e consola. Per questo, vorrei aggiungere che comprendere le proprie paure è di grandissima utilità per la qualità della vita, giacché per tenerle a bada coi vari stratagemmi controfobici si è costretti a sperperare una notevole quantità di energia psichica che verrà sottratta a quella che viene chiamata la parte “economica” della psiche, per cui alla fine ne rimane poi poco per affrontare la propria crescita nel mondo.
Gentile dottore, ho 55 anni, sposata da 35 con tre figli grandi.
Non vorrei cadere nel classico luogo comune sull’eterna diatriba suocera – nuora.
Sicuramente 35 anni fa non credevo di “sposare” anche mia suocera. Ero giovane e innamorata e con le classiche fette di prosciutto appiccicate agli occhi!
Come gestire una suocera egoista, invadente fino all’impossibile, autoritaria, gelosa e sempre perennemente molto rabbiosa?
E un marito totalmente dipendente e succube di questa madre, attaccato a lei in maniera morbosa da sembrare un tutt’uno?
Avrei in teoria dovuto ribellarmi ma date le circostanze della vita ho dovuto adattarmi. Questi 35anni sono stati una croce.
Mi sento disillusa, incapace, inutile, invisibile. La mia vita continua così, malgrado mia suocera sia ultranovantenne!
Come spezzare questa catena che mi soffoca?
Grazie per una Sua cortese risposta.
Lettera firmata.
Innanzitutto, le dirò che quando siamo giovani e innamorati siamo tutti, indiscriminatamente, vittime di quella “malattia del prosciutto appiccicato agli occhi” che il grande Stendhal, più elegantemente, chiamava cristallizzazione: noi vediamo i bei cristalli che ornano quello che è, al loro interno, un ramoscello secco.
Lei mi confida di essere incapace, inutile e invisibile. Stento a credere che sia proprio così.
Lei è stata capace di reggere per 35 anni sua suocera con tutte le insopportabili caratteristiche che la contraddistinguono come pure di assistere impotente al deprimente duetto simbiotico suocera-marito e vuole veramente credere di essere un’ incapace? Voglio dire, ritiene di non essere capace oggi di far sentire loro la sua presenza, di far divampare finalmente la sua visibilità?! Certo, è assai poco probabile che sua suocera oggi ultra novantenne muti corazza così come non è facile attendersi che il rapporto madre-figlio possa andare in altre direzioni.
Purtroppo, non mi è dato sapere quali sono state e sono le sue condotte o reazioni fino ad oggi in questo insostenibile rapporto. Lei nulla ha detto a questo riguardo. Forse non è del tutto casuale ciò, forse dopo essersi lasciata travolgere dal rapporto madre-figlio, lei si è limitata ad osservare, con stupore e impotenza.
Sospetto che lei non abbia ancora del tutto prodotto presenza, la Sua presenza.
Non penso tuttavia che presentificando, lei possa suscitare una rivoluzione nel rapporto dell’ultra novantenne suocera e del di lei figlio.
Ma – ed è questo ciò che conta – lei avrà l’inedita sensazione di esserci e di scendere dalla “croce” alla buon’ ora!
Attenta però, non si tratta qui di scollare un rapporto incollato col mastice facendo sentire la sua voce emessa con tonalità da soprano. No! Semmai il contrario. Li scandalizzi emettendo una voce-presenza con toni così bassi, quasi sussurrati da costringere loro due a compiere uno sforzo per udirla! Questo sforzo potrebbe equivalere a una pausa tra loro due e a un momento, quantunque forzato, rivolto a lei.
Non è solo pausa banale, mi creda, ma pausa che crea spazio, nel quale loro due sono indotti a pensare che lei c’è e che quel che lei “sussurra” può essere qualcosa di prezioso o quanto meno significativo o semplicemente “misterioso”!
Auguri.
Ho avuto il piacere di conoscerla, dottor Delfino, quando ho partecipato ad un suo laboratorio sulla relazione d’aiuto: un’esperienza che ha lasciato il segno e a cui penso spesso.
Per quale motivo mi rivolgo a lei? Per questa frase di B. Russel che ho trovato citata in un romanzo: “La quantità totale di sesso indesiderato subìto dalle donne è probabilmente maggiore nel matrimonio che nella prostituzione.”
Sono una donna realizzata e libera, sì, e mi sgomenta rileggere queste parole.
Colgo allora questa occasione per domandare a lei, conoscitore della psiche umana, se nella sua professione riscontra ancora diffusa nelle coppie sposate questa forma che, io reputo, violenza, non meno dolorosa di altre violenze.
Lettera firmata
Innanzitutto, la ringrazio per le belle parole riferite a quel nostro laboratorio sulla relazione d’aiuto.
La frase di B. Russel, provocatoria e purtroppo molto vera, merita una, sia pur breve, riflessione sulla psicologia del sesso.
Orbene, quale che sia il grado o l’intensità dell’innamoramento e/o amore che legano i due partner, rimane un dato di fatto che le “fibrillazioni” iniziali in una qualunque coppia sono sottoposte alla fatale legge dei profitti che calano!
A meno che i due partner perseguano assieme degli ideali (quali essi siano) sì ché il loro stare assieme si fa più fecondo e creativo.
In tali casi, pur riducendosi, il sesso rimane sempre incombente. Questo va detto per coloro che obiettano che esistono coppie che stanno bene assieme per molto tempo.
E va bene così.
“I profitti che calano” accadono regolarmente soprattutto nei casi in cui il sesso è avulso da una qualche forma di amore.
Nondimeno, anche amando, purtroppo, la ripetitività dell’atto sessuale, la sua routinarietà può sfociare prima in una sorta di tarantella meccanica. Poi, impicciati in questo vortice di assenza del desiderio, i due partner dopo un po’ vivranno la loro frequenza sessuale come noia e per questo, come coazione, costrizione.
Da qui, il penoso sentimento di violenza che lei, giustamente, ha lamentato.
Il fenomeno è più diffuso di quanto si pensi.
Occorrerebbe aver coscienza che la sensibilità femminile è diversa da quella maschile e differenziare poi il sesso inteso come atto puramente copulativo dall’Eros, che è altra cosa. L’Eros è mentale, giacché nasce da bisogni e fantasie profonde e, per questo, costituisce una grande fonte di energia psichica, laddove il sesso ne è la sua messa in atto, che se è ancora unito all’amore, diventa gioco e produce gioia. Se così non è, se cioè è costrizione e dunque vissuto con una forma di violenza, allora è augurabile rompere le catene che ci tengono costretti a rimanere in una situazione di perenne stallo e di protratta frustrazione, altrimenti può insorgere rabbia alla quale se, con coraggio, non si dà voce, essa viene ripetutamente reingoiata.
Allora, sì, non solo è penoso il fatto in sé, ma la vita stessa si ingrigisce e diventa asfittica e perde un bel po’ di sapore.
Sono una ragazza di 17 anni.
Divisa tra sangue e anima.
Non ho mai avuto un bel rapporto con mia madre ma in questo ultimo periodo è tutto peggiorato.
Discutiamo, battibecchiamo e litighiamo da sempre: non credo di avere un ricordo senza una di queste tre parole.
A volte litighiamo per cose banali, quasi inutili, altre volte per questioni più importanti; lei le chiama: “suggerimenti” o “critiche costruttive”, ma in un modo o nell’altro finisce sempre nello stesso modo: io, nascosta dietro la piglia di camera mia, a piangere e a chiedermi dove e cosa sbaglio: sempre.
Sono consapevole che le divergenze tra genitori: dovute da età differenti, repentini cambiamenti di umore perché adolescente sono soventi soprattutto per il legame madre e figlia ma sinceramente non mi piace questo rapporto!
Non riesco più a litigare, ad arrabbiarmi, a starci male e poi a chiedere sempre e comunque solo io scusa.
Voglio avere tutt’altro rapporto con lei, perché: mia madre, donna, lavoratrice.
Voglio comprendere meglio il motivo di tutta questa “rivalità/nervosismo” che si è instaurato tra me e lei e voglio che tutto questo migliori!
Lettera firmata
E’ assai apprezzabile, gentile lettrice, la determinatezza con la quale vuole comprendere meglio il motivo della persistente rivalità tra lei e sua madre, come pure di volere tutt’altro rapporto con lei.
Questa è la sua volontà. Parto dal presupposto che sia volontà anche di sua madre.
Sebbene la volontà sia il primo passo, tenga presente purtroppo che la volontà non basta.
“Non ho mai avuto un bel rapporto con mia madre ma in questo ultimo periodo è tutto peggiorato.”
È così che esordisce. Vien subito da chiederle “come mai? e cosa è accaduto perché peggiorasse? ”
Dunque, questi vostri “scontri” hanno vecchia data.
Certo, se perfino la banalità o l’inutilità del contenuto verbale vi monta in bizze, è facile intuire che, quale che sia la cosa che state per comunicarvi, avete dentro, senza esserne del tutto consapevoli, un vulcano cui basta dare la miccia, che però è solo pretesto. Pretesto reale certo, ma pur sempre pretesto.
Credo di capire che non c’è un papà oggi che prenda partito appetto ai vostri battibecchi e litigi…
Pare proprio di no.
Chiariamo. Una madre può, anzi spesso deve dare “suggerimenti” o favorire “critiche costruttive”, così come è auspicabile che una figlia non solo accetti ciò, ma se lo aspetti per divenire adulta… purché questa non sia l’unica modalità comunicazionale che leghi mamma e figlia!
Le sarà difficile comprendere i motivi profondi di questa arcaica ostilità, che forse si sperde nella notte dei tempi…
È un bene che lei non riesca più a litigare e ad arrabbiarsi o a scusarsi per qualcosa che non sa. È un male che lei se ne stia in camera sua a piangere…
Non posso sapere la o le ragioni per cui questo conflitto esacerbato e senza tregua con la mamma seguiti a oltranza.
So però che lei vuole che questo cessi.
Il problema è come. Ora, mettendo da parte la cosiddetta psicogenesi remota del rapporto con sua madre, che non si può affrontare con una lettera, le proporrei questo.
Anziché rimanere sempre nascosta in camera sua a piangere e a chiedersi dove e in cosa ha sbagliato, esca dalla sua camera, vada da sua madre e condivida con lei il suo dolore, abbracciandola forte e comunicandole a chiare lettere che è suo profondo desiderio di voler stare bene con lei. Le dica esattamente quello che ha scritto a me. Spesso, un gesto d’affetto può essere salvifico. Mi raccomando però, non le rimandi un pianto rabbioso, ma solo dolore per un legame che ancora non si è espresso al meglio.
Desiderio autentico di pace e di cambiamento, non pretesa – badi bene a questo – ma bisogno!
Provi a differenziare il dolore dalla rabbia; un pianto doloroso è un conto, un pianto “rabbioso” è altra cosa, poiché dentro c’è ancora rabbia.
Se vorrà, mi scriva ancora e mi tenga al corrente di come è andata.
È una curiosità, perché ho intrapreso un percorso con una psicologa alla quale non riesco a dire proprio tutto.
Quindi volevo chiedere se le è mai capitato di riuscire a capire quando un paziente le mente o le tiene nascosti dei dettagli.
Lettera firmata
Capita spesso che una ragazza intimorita da certe parti di sé che le sembrano disdicevoli non riesca ad estrinsecarle. Talvolta, anche per l’infondato timore che lo psicologo non le accetti.
Le dirò che, nel mio operare, il primo tema che propongo all’analizzando è quello della fiducia e della diffidenza, sì da esplorare la sua disponibilità verso se stesso e la relazione con me.
Chi non esprime tutto il suo travaglio perché ha deciso coscientemente di tenerlo nascosto, spende male il suo tempo.
Tuttavia, mi creda, ci sono molti modi per cogliere il disagio non comunicato. Lo studio approfondito della meta-comunicazione comprende centinaia di indici non verbali che trasmettono allo psicologo attento le difficoltà dell’analizzando di non riuscire a esprimere ciò che gli sta a cuore: una pausa, una improvvisa accelerazione del parlato e, al contrario, una sua decelerazione, un silenzio illogico, un balbettio, un abbassare gli occhi con un lungo silenzio, un veloce sbattere le palpebre, un cambio di tono della voce, un movimento sulla sedia, un cambio di postura… e tanti tantissimi altri indici para-verbali che lo psicologo certamente coglie e sa, con dovuto garbo, mettere in condizioni la persona a prenderne coscienza sì da superare l’ostacolo e permettere così un incontro colmo di reciproca fiducia.
Si figuri che capitano perfino i mentitori cronici.
Ma, anche in questi casi, le stonature arrivano attraverso il linguaggio non verbale e le competenze consentiranno allo psicologo di utilizzare gli strumenti adatti affinché il curando decida di distaccarsi dalle sue difese e finalmente aprirsi a un nuovo contatto con se stesso e con lo psicologo, al quale sta chiedendo aiuto.
Provi ad affidarsi completamente alla sua psicologa e a superare il momentaneo disagio. Si sentirà coraggiosa e forte e solo in quel momento la psicoterapia prenderà il volo e le sarà utile.
Appartengo ad una cultura araba, in cui fin dalla tenera età ti insegnano che il tuo obbiettivo è quello di arrivare vergine al matrimonio perché i ragazzi che incontrerai nella tua vita vorranno solo il tuo corpo e non conoscere la tua anima, quindi ogni ragazza che appartiene a questo tipo di cultura cresce sentendosi dire che non si deve far perdere in giro dal sesso opposto.
Molte ragazze che vivono in paesi come la Tunisia, il Marocco o l’Algeria si convincono di questo fatto e ci convivono senza grandi complessi, trasmettendo gli stessi ideali alle proprie figlie. Il problema subentra nel momento in cui vivi in un paese occidentale con ideali diversi e ti accorgi dopo un attenta riflessione che quello che ti hanno sempre insegnato non è esattamente giusto, ma c’è sempre una parte di te che non vuole infrangere questa regola per paura di deludere, umiliare la propria famiglia.
Ho 18 anni e non sono ancora riuscita ad arrivare a una conclusione, non so bene che strada seguire perché è come se avessi due personalità al mio interno che si battono tra di loro ma nessuna delle due riesce a vincere sull’altra. Essere un’adolescente araba o musulmana implica avere sensi di colpa anche per un bacio, nascondere i propri sentimenti verso un ragazzo o inventarsi scuse assurde per uscire ad un appuntamento. La mia domanda quindi è: come possiamo realmente capire ciò che è giusto per noi senza avere sensi di colpa?
Lettera firmata.
Più che due personalità, sono due culture che si confrontano e, talvolta, si scontrano.
Una è quella assorbita da bambina, là dove è nata, un’altra quella assunta a tutt’oggi, qua dove vive.
Giungere alla consapevolezza di un conflitto è cosa assai buona.
Comprendere poi che, pur nel conflitto, taluni precetti della Tradizione e della famiglia siano o possono essere vissuti da lei come “ingiusti”, sta a significare la sua crescita, ossia la sua capacità di ragionare con maggiore autonomia.
Che l’uomo sia alla ricerca della donna solo come oggetto di sesso, come le hanno inculcato, lei sa bene oggi – credo – che non è vero .
Il tema perenne di tutta la letteratura mondiale è l’amore.
Non esiste alcuna religione al mondo che respinga l’apertura all’Amore. Tutt’altro!
Dunque , conoscersi prima, abbracciarsi poi e darsi un bacio, non è un banale lasciarsi andare (ne’, peggio, offendere la famiglia, come lei teme) ma è la premessa di un movimento di maturità che si farà via via sempre più esplicito e che si esprimerà nella condivisione profonda di un sentimento con l’altro, nella speranza di elevarsi dagli inevitabili condizionamenti psico-culturali (e quindi da conflitti che appesantiscono indebitamente l’esistenza) sì da poter compiere un pezzo di vita assieme.
Più la mente è autonoma e dunque responsabile di ciò che ritiene sano per la propria crescita, più i sensi di colpa precipitano nella scarpata!
A volte mi sento talmente piena dentro avere l’impressione di essere vuota.
È normale che durante l’adolescenza non si riescano a decifrare le proprie emozioni?
Questa non-conoscenza di ciò che mi sta accadendo mi divora, vorrei saper dare un nome alle emozioni che mi sconvolgono ogni giorno come un fiume in piena, ma nonostante i miei continui sforzi tutta questa fatica sembra essere vana e mi ritrovo sempre al punto di partenza.
Con fretta e superficialità mi definirei lunatica, ma nel profondo so bene che esiste una parola più specifica e accurata per descrive come mi sento, il problema è che non l’ho ancora trovata.
Ho sempre pensato di essere una ragazza con una buona empatia e le persone me lo hanno spesso riferito a loro volta, il mio problema è “l’empatia personale”, quella che mi dovrebbe permettere di scappare da questa nube di incertezza e emozioni ricche di dubbi.
Arrivederci.
Lettera fermata.
Rileggendo attentamente la sua lettera mi pare che ciò che lei evidenzia da una riga all’altra è una forma di dubitatività generalizzata.
Questo, di per sé, sfinisce, poiché il cercare assiduamente qualcosa che, al postutto non trova,
soprattutto la parola per descrivere in un dato momento un quadro emotigeno è fatica improba.
Questa dubitatività protratta cui le ho fatto cenno sopra e più che normale a questa età poiché sopraggiungono sensazioni e emozioni nuove e di fronte al nuovo è come trovarsi al cospetto dell’ignoto, per cui insorgono le ansie e il bisogno di darsi una spiegazione per difendersene.
L’empatia c’entra poco con il suo problema.
Ciò che sovrasta è un’adolescente un po’ persa nei suoi dubbi, disperdendo così molteplici energie che invece le occorrono per trovare una pace e una serenità non ancora raggiunte.
È augurabile non proiettare le sue crisi dubitative nelle relazioni affettive.
I dubbi nascono dalla insicurezza e questa dalla poca fiducia in sé.
È molto importante riuscire a comprendere le ragioni profonde di tutto ciò, di modo che il dubbio possa estinguersi sì da vivere in modo fecondo le interazioni sociali e psicoaffettive.
Vedrà che queste la potranno riempire pienamente di calore e di fiducia, dando un calcio così a tutti i suoi dubbi e allo spreco psicoenergetico mirato a conservarlo.
Ho una storia triste e difficile. Mio padre beveva e diventava violento. Fin da piccola ricordo le tante chiamate alle forze dell’ordine e poi sono stata costretta a scappare con mamma e mia sorella maggiore, in un’altra città.
So quanto male ci ha fatto e la paura non mi lasciava mai. Oggi però anche se il tempo è passato, ho 20 anni, studio all’università, penso a lui e mi chiedo che cosa fa, come vive. Mia mamma e mia sorella ne parlano tra loro ma quando arrivo io cambiano discorso, pensano di evitarmi altra sofferenza …io però vorrei sapere. Corriamo ancora qualche rischio?
Dentro di me, sento che dovrei cancellarlo ma non ce la faccio. E’ sempre mio papà…e questo mi tormenta.
Grazie!
Lettera firmata
Esistono due padri: uno immaginario (introiettato da bambini e incapsulato nell’inconscio); un altro reale. È importante distinguerli, come presto capirà. Il papà che lei descrive e dal quale ha dovuto allontanarsi, è angosciante minaccioso e persecutorio. Dunque, è un non – papà, essendo esattamente opposto al papà affidabile, che rassicura e soprattutto protegge.
Difronte a un padre caratteropatico che ha sempre generato angoscia, furiose minacce o, peggio, maltrattamenti fisici nonché tratti di persecutorietà è preferibile starne lontani. Un papà come il suo non lascia spazio al vissuto di affidabilità, sebbene io comprenda che, da qualche parte, nel suo immaginario, “è sempre mio papà”, come lei scrive.
È difficile pensare che corriate qualche rischio ancora oggi, come lei teme.
In tutti questi anni di sicuro suo padre avrà trasferito su qualche altro bersaglio-vittima le sue condotte psicotiche o, ma è un’ipotesi teorica, potrebbe aver instaurato relazioni più acconce, perché altri, ad esempio, ai primi segni di aggressività possono aver reagito più opportunamente stoppandogliele.
Non si tratta di cancellarlo, come lei dice.
Ciò che tormenta lei e le fa dire “è sempre mio papà “le deriva dalla difficoltà di differenziare nettamente il papà reale da quello immaginario che c’è e rimane nella parte arcaica della bambina (di cui ho alluso all’inizio) e che ancora oggi lo desidererebbe…quello però purtroppo è il papà immaginario, non l’altro reale che spaventa e angoscia.
Salve, ho 17 anni e le domande che vorrei porle sono davvero tante ma ce n’è una in particolare che mi tormenta molto in questo periodo difficile per tutti noi… la mia più grande paura è non riuscire più a tornare alla normalità, dopo mesi chiusa in casa senza avere contatti con le persone a me più care, non riesco oramai ad immaginarmi la vita di prima e come sarà quando tutto questo sarà finito.
Secondo lei è normale avere questo pensiero?
Forse è dovuto alla paura e all’agitazione che si sta manifestando oggi?
Lettera firmata
Guardandomi bene dal predire il futuro (non essendo profeta, ma solo psicologo), quello che colpisce nella sua lettera è che lei presagisce il futuro come una dimensione irreversibile.
Per questo, comprendo bene la sua paura.
Si rassicuri, il suo pensiero irreversibile con la paura che ne consegue rientra negli standard normali.
Penso però che sia la sua immaginazione che possa e debba dilatarsi fino al punto da recuperare, dopo mesi di confinamento, una umanità attuale più consapevole dei rischi che ha corso e che perciò stesso non presenterà il volto di prima, ma un volto più umano, condotte più sobrie, più sane, rassicuranti, e che per questo sarà assai caloroso guardarci con sguardi di meraviglia inedita.
Le guerre, le pestilenze e i virus attendono i nostri sogni…per poter riabbracciare i nostri simili con rinnovata autenticità e vigore.
Salve, ho diciotto anni e nella mia vita raramente mi è capitato di ricordarmi al mattino o nel corso della giornata i sogni che ho fatto durante la notte.
In questo periodo di quarantena invece è accaduto molte volte, il che mi ha sorpreso considerato che per me è veramente raro e forse anche ambiguo ricordare i sogni che faccio. Confrontandomi con altre persone ho avuto la conferma che in questo periodo, i sogni giungono di più alla nostra memoria.
La curiosità che ho è se ciò accade per qualche motivazione, se c’è una causa e pensandoci su mi sono data una possibile risposta. Sono ormai mesi che siamo più in contatto con noi stessi, siamo obbligati a guardarci dentro e a pensare a quali siano le nostre paure, ad affrontarle.
Ci siamo trovati a lottare contro ciò che ci provoca angoscia, che ci fa sentire oppressi. Il fatto di ricordarci quel che sogniamo può forse essere legato all’ansia di questo specchio sul quale riflettiamo noi stessi ogni giorno?
Sono moltissime le domande che vorrei porre. La ringrazio per questa opportunità!
Lettera firmata
E’ molto vero quello che lei dice a proposito di un accentuato ricordo dei sogni in una fase come questa che ci ha costretti tutti a casa a “monacare”.
L’imposizione (sia pure a fin di bene) di un cambio di vita dove la comunicazione sociale nei due mesi scorsi è stata quasi inesistente “salvo quella telematica che però non è la stessa cosa giacché virtuale e non reale”, ha indotto nelle persone sane a una inevitabile forma di meditazione.
La meditazione protratta a sua volta conduce a una concentrazione su di sé, talvolta quasi inedita che, per questo, fa più crepuscolare, la coscienza, uno stato quasi oniroide, una sorta di rêverie, come diciamo noi frequentatori della psiche.
Dunque il sognare è, per così dire, più investito dal punto di vista psico-energetico, cosicché il ricordo stesso ne risulta più rinforzato.
Che poi questi sogni non più rimossi abbiano coloriture piacevoli o ansiose è altro discorso.
Le auguro di seguitare a ricordare i sogni. Senza il ricordo di essi le mancherà sempre qualcosa. Che siano belli o brutti restano preziosi in quanto denotativi di qualcosa che le appartiene a livelli profondi.
Salve dottor Delfino, sono una studentessa di 17 anni.
“Se potrò impedire ad un cuore di spezzarsi,/non avrò vissuto invano./Se allevierò il dolore di una vita/ o guarirò una pena,/o aiuterò un pettirosso caduto/a rientrare nel nido,/non avrò vissuto invano”. Emily Dickinson
A scuola abbiamo parlato dell’empatia, ossia la capacità di immedesimarsi negli altri e coglierne i sentimenti e pensieri, permettendoci di capire la loro situazione per aiutarli nel miglior modo possibile.
A tale riguardo, molto spesso nella mia vita mi è capitato di trovarmi in situazioni difficili in cui non riuscivo a trovare la via d’uscita per via del mio carattere, o meglio, per via della mia troppa empatia. Ascoltare i problemi degli altri è sempre stato il mio forte, voler cercare di risolverli ancora di più e ci sono stati svariati episodi in cui il dolore delle altre persone superava il mio di dolore, come se ci fosse un legame… Come si può cercare di essere meno empatici? Voglio dire, come si può cercare di “impedire ad un cuore di spezzarsi, alleviare il dolore di una vita […] “ senza spezzare il proprio di cuore? Senza procurarsi dolore? Non smetterei mai di aiutare un “pettirosso caduto a rientrare nel suo nido “, cercherei sempre di mostrargli la strada verso casa… cosa succederebbe però se la strada la perdessi io?
Buona giornata.
Lettera firmata
Gentile studentessa,
la sua lettera che ho anche molto apprezzato per le belle parole con le quali ha descritto il suo afflato empatico verso chi soffre, necessita di qualche chiarimento proprio circa la cosiddetta “empatia”.
Anzitutto le dirò che la parola empatia, è così abusata che ha ridotto di molto il suo valore, ossia il suo profondo significato psicologico.
Non è il suo caso, certo. Tuttavia, la sua domanda alla fine della lettera ci offre l’opportunità di fare una riflessione.
Il vissuto di empatia è la capacità di “sentire” l’altro. Sostenere e aiutare invece è altra cosa dall’empatia, che rimane una qualità basica.
La “troppa” empatia che lei ha descritto come un suo affanno potrebbe significare non soltanto la sua ottima capacità di fluire nell’altalena dei vissuti dolorogeni e angosciogeni dell’altro, ma di precipitarvici col rischio di annegare se stessa nelle onde maremotiche dell’angoscia altrui.
Lei comprende bene, credo, che la capacità di ascoltare e accogliere l’altro senza lasciarsi sopraffare è attitudine complessa e non è tappa, ma traguardo.
Forse potrebbe esserle utile chiedersi la ragione ossia la spinta motivazionale di questo suo accanito bisogno (ascoltare e aiutare) che, a mio parere, va comunque modulato.
È confortante sapere che vi sono ragazze come lei, pronte a farsi carico dell’altrui malessere. Il suo malessere però è la non percezione del limite, mi pare.
Ascoltare e aiutare indiscriminatamente può imbullonarla, suo malgrado, in una situazione tale che lei rischia di sentirsi, con l’andare del tempo, scarnificata e dunque senza più sangue.
Le proporrei questo: qualche volta, anziché stare ad ascoltare, sostenere e aiutare gli altri (fatica improba con la conseguenza di sottrarle buona parte della sua energia psico-fisica) permetta ad altri di mettersi in ascolto di lei.
Il ruolo della “crocerossina” o della “buona samaritana” ha i suoi lati oscuri… come pure l’eccessivo dispendio di energia, mi creda, potrebbe lasciarla priva di forze che le necessitano per il suo personale percorso esistenziale.
La domanda che le sottopongo, dottor Delfino, è un po’ più complicata perché riguarda un fatto che mi sta accadendo da mesi ormai, ma di cui non posso parlare nello specifico, però vorrei avere risposta magari un giorno, parlando appunto con lei, ovvero: perché ripetiamo sempre lo stesso errore? Pur sapendo i rischi che comporta e quindi le conseguenze, come mai quell’errore è diventato ormai una scelta di cui non si può fare a meno?
Lettera firmata
Vorrei chiarire subito un concetto.
Lei chiama “scelta” la consapevolezza di sbagliare e di non poterne fare a meno.
È stridente, giacché se non ne può fare a meno (finora) la sua, scelta non è.
(La libertà consiste nell’operare una scelta in uno stato di non coercizione. Non si è liberi, altrimenti).
Noi psicologi la chiamiamo “coazione a ripetere “.
È espressione, questa, molto tecnica.
Penso però di doverne fare cenno, poiché detta espressione implica un dispendio psicoenergetico così massivo che le rimane poi poco per affrontare la vita.
Riformulando ciò che afferma, lei sembra andare alla ricerca costante e coatta di qualcosa o qualcuno (io non so, perché lei non lo chiarisce, e lo capisco) da respingere (o da cui farsi respingere).
È una sorta di copione subconscio contro il quale, al momento, lei non ha la forza di contrapporvisi. E ne soffre.
La sfida oggi consiste nel comprendere la ragione inconscia di questa sua tendenza frustrante e dolorosa a reiterare condotte che lei razionalmente non vorrebbe mettere in atto, ma che nella realtà attua, suo malgrado, nonostante lo strascico dolorogeno e impotente che la reiterazione di questo suo bisogno coatto genera.