Contro il vento cattivo

A distanza di tanti anni quando passo davanti a un ospedale mi sento ancora tremare: anche senza entrarci, mi basta vedere la scritta Pronto Soccorso.
Per me il Pronto Soccorso sono le bugie che raccontavo, la vergogna nel non aver avuto coraggio per tanto, tanto tempo. Abitavo in una grande città. Non sapevo oppormi alle sue violenze.
Ero come paralizzata, quando mi metteva le mani addosso mi sentivo un pupazzo, una foglia secca che va contro il vento cattivo.
Quando mi ha rotto le costole non ho più avuto il coraggio di andare nello stesso ospedale dov’ero già stata due volte. Ne ho scelto un altro. Poi anche lì non ho più voluto andare.
La volta che sono diventata quasi sorda per i colpi che ho preso mi è venuto il panico, mi ero convinta che in qualsiasi Pronto Soccorso in cui fossi andata avrei incontrato qualcuno che mi avrebbe riconosciuta: così ho preso il treno e sono andata in una città vicina. Raccontavo ai medici storie improbabili per non ammettere che me le prendevo, poi più niente, non ho più parlato.
Non dicevo niente e cambiavo ospedale, cambiavo città.
Un giorno una dottoressa mi ha invitata a guardare fuori dalla finestra. C’erano delle impalcature: “Signora, qui è tutto un cantiere. C’è molto disordine, tanta polvere: il  prezzo che dobbiamo pagare per rimettere a posto questo palazzo. Anche noi, a volte, abbiamo delle macerie dentro…”. Ho iniziato a piangere. Dopo ore ero ancora lì che piangevo.
La dottoressa ha finito il turno ed è venuta a salutarmi. Le ho chiesto: “Mi può aiutare?”.
Quasi subito siamo diventate amiche. Mi ha portata in un centro antiviolenza, mi è sempre stata vicina. E’ stata durissima, ho avuto bisogno di un avvocato, di uno specialista che calmasse le crisi di panico e ancora adesso, a distanza di anni, vado dalla psicologa.
Ma sono viva ed è un fatto che nemmeno io avrei dato per scontato.